Futuro anteriore. Archeologia del dopo – Catastrofe

Futuro anteriore

N.B. Il testo che segue – l’opera prima del collettivo “Gran Bollito” – è disponibile anche in ePub e Pdf (ottimizzato per e-reader).

Prefazione

Quali divinità adorava l’uomo di Cro-Magnon? E come pregava?

Quelle che chiamiamo “cultura” e “storia” sono insiemi di fratture, discontinuità culturali, rotture dell’episteme, entropia. Nessuna delle lingue europee di duemila anni fa è parlata ancora oggi nella vita quotidiana, e duemila anni sono uno schiocco di dita. Nessuna delle lingue che parliamo oggi — inglese, francese, italiano, spagnolo, cinese, kiswahili — sarà parlata tra mille anni. Se la specie umana non andrà al tracollo e all’estinzione, esisteranno studiosi e specialisti in grado di leggere e tradurre, ma nessun popolo parlerà quegli idiomi.

A volte basta fare un esempio: il verbo italiano “crollare” è entrato nel XX secolo con valore transitivo e il significato di “scuotere”, per uscirne con valore intransitivo e il significato di “cadere a pezzi”. Per riottenere il valore e il significato di cent’anni fa, il verbo deve dotarsi di una s- intensiva: “scrollare”. La frase “crolla l’albero!”, oggi, ha un significato completamente diverso da quello di cent’anni fa. È accaduto nel giro di tre generazioni, e succede a milioni di parole, in tutte le lingue.

Che ninnenanne cantavano i maglemosiani ai loro bebè? E tra l’altro, chi cazzo erano i maglemosiani?
Il cambiamento di significato dell’aggettivo inglese “gay” rende involontariamente comiche o maliziose frasi che appena sessant’anni fa non facevano ridere né alludevano ad alcunché.
Che cultura avevano i nostri antenati che per decine di millenni convissero e si incrociarono coi cugini Neanderthal? E si dicevano qualcosa, mentre trombavano?

La nostra civiltà collasserà e morirà. È sempre successo. Tutte le civiltà che possiamo nominare sono finite — letteralmente — nella polvere: sumera, babilonese, egiziana, ittita, minoica, etrusca, celtica, classica greco-romana, vichinga, olmeca, tolteca, azteca, maya, inca, austronesiana…Di alcune di queste non decifreremo mai i codici, non scopriremo mai i segreti. E sono esistiti mondi ben più antichi, mondi anteriori dei quali rimane appena una tibia, una pietra scheggiata, una rozza statuetta, un omino disegnato su una roccia. Davvero qualcuno pensa che tra quindici-ventimila anni le nostre suppellettili e tecnologie saranno più intelligibili ai posteri di quanto un cerchio megalitico è intelligibile a noi?

Lunga durata. Lunga gittata del pensiero e dell’immaginazione.
Visualizzazione dei possibili futuri, e delle possibili memorie future. Cosa stiamo lasciando? Cosa si conserverà davvero?
Di questo parlavamo, su Giap, nell’autunno 2011. Senza mettersi d’accordo, nella quinta e sesta schermata di commenti a un articolo sul “feticismo digitale”, si erano dati appuntamento programmatori, archeologi, matematici, artisti, merdaioli…
A un certo punto, per trarre una prima sintesi di quella discussione, costoro hanno deciso di scrivere insieme un saggio, o un racconto, o entrambe le cose. Nacque un collettivo ad hoc, che mesi dopo ha deciso di chiamarsi “Gran Bollito”. È un trasparente anagramma di Alt, brogli no!, ma non è stato scelto per quello. È più un’allusione alla pentola sul fuoco, al paiolo del sabba intellettuale e creativo che ha prodotto “Futuro anteriore”. Guarda il caos, “Futuro anteriore” è anche il titolo di un brano dei Funambolique ispirato al racconto “Arzèstula”. Sarà stata una coincidenza…

“Futuro anteriore” è un oggetto narrativo non-identificato. È un racconto e un saggio. È un ebook.
Immaginiamo un futuro remoto nel quale l’unica testimonianza della nostra civiltà sia una versione cartacea di “Futuro anteriore”. Cosa potranno capire i nostri discendenti del trentesimo o del trentacinquesimo secolo dopo Cristo? A proposito… Chi era ’sto Cristo? Perché quelli là contavano gli anni a partire da lui? Che ninnenanne cantavano ai loro bebè? Come pregavano? A cosa servivano quelle montagne di polimeri plasmati in varie forme che ci hanno lasciato? Boh. Certo che l’archeologia è affascinante, potrei stare a scavare in questa regione per tutta la vita e trovare un enigma al minuto… Per esempio, cosa c’è scritto qui?
B…OB…B…YS…OLO…U…NA…L…CRI…MA…SU…L…V…I…5O…

Wu Ming 1

La catastrofe incombe.

Così è sempre stato, e sempre sarà. Non conta quale volto, quale forma, mostruosa o mitica, deciderà di assumere. Non se avrà l’oscura e gelida voracità dell’onda, o l’incandescente istantaneità del lampo.
Neppure da dove la vedremo prendere vita; se dall’alba di uno sconosciuto e gigantesco sole o dall’ancestrale culla che accolse e battezzò la vita. Inizialmente potremmo addirittura non riconoscerla, trasfigurata nell’abbagliante paesaggio che la sovrasta, o immersa in un’oscura notte senza fine. L’accoglieremo forse senza timore, prima che si riveli in tutta la sua ineluttabile devastazione.

Prima del tempo in cui, della forma perfetta e immutabile dell’esistenza, rimarrà solamente l’ombra. Il tempo dei sogni perduti.

La catastrofe incombe.

Antefatto

Om mani padme hum. Graffio di rasoio. Om mani padme hum. Tintinnio metallico. Om mani, sciacquare, padme hum, riprendere la tosatura. Om mani padme hum. Il graffio d’un acciarino, crepitìo di fiamma. Om mani padme hum. Un fendente più vigoroso e l’ultima ciocca cade a terra. Om mani padme hum: il mantra s’interrompe. L’intera comunità bhikkhuni è inginocchiata attorno alla statua di Avalokiteśvara, protettrice dell’ordine monacale. Il cranio appena rasato della giovane monaca viene asciugato con un panno caldo, benedetto con l’incenso, incastonato in una sontuosa veste dai riflessi dorati.

La freccia infuocata la centra in fronte. Il tempo d’una smorfia, e quel bulbo incandescente si schianta contro la statua della dea, frantumandola in mille pezzi.

Silenzio.

Poi un crescendo di fischi.

La cascata di fuoco s’abbatte sul tempio, staffilando altre monache. Le sopravvissute si nascondono sotto corpi morti o agonizzanti, in attesa della seconda scarica, che arriva subito. ‘‘Hanno due squadre di arcieri!’’, grida una di loro, ‘‘Prepariamoci al combattimento!’’. Basta un gesto, e la coltre di fumo viene falciata da decine di lame scintillanti. Le monache corrono armate verso l’uscita, respingendo la terza ondata di frecce. Sono fuori. Un istante dopo, il tetto implode, divorato dalle fiamme.

‘‘Shin, Hye’’, ordina la veterana, ‘‘voi andate alla sala dei Sokjanggyeong. Noi tenteremo di respingerli, o almeno di rallentarli. Portate in salvo le scritture!’’.

Le due ragazze tentennano. Le sagome degli orchi emergono dalla boscaglia: sono a centinaia. Alle loro spalle, la calotta del tempio è zebrata da bagliori arancioni. I tre sguardi s’incrociano un’ultima volta, poi la coppia corre verso il tempio.

‘‘Abbandonate le vostre tuniche, sorelle’’, grida la veterana alle restanti, ‘‘non avremo bisogno dell’oro una volta giunte al Nirvana’’.

L’abito d’oro di Shin e Hye gesticola luminoso col bagliore della mezza luna piena. Dal portale alla loro destra, una manciata di monaci stramazza al suolo, opera di una dozzina di orchi che emerge dall’ombra. Uno di loro impugna una lancia e si scaglia sulle donne. Shin e Hye sfilano il saio, facendolo roteare sopra la testa. Shin cattura l’arma dell’orco attorno alla veste, permettendo a Hye di balzare su di essa e compiere un salto inverosimile lanciando la sua cappa contro i mostri. Nel frattempo Shin colpisce a morte la preda e si serve della lancia per uccidere gli orchi avvolti nel saio di Hye. Due contro sette. Grugniscono e si lanciano su Shin che sgozza il primo con la spada, stordisce il secondo e facendo leva sulla mandibola del terzo, vola in cima al timpano del portale. Rinfodera la spada, mentre quella di Hye sibila attraverso i corpi di altri tre che piombano a terra. I restanti gettano le lance verso il timpano. Shin schiva la prima e afferra le altre due, roteandole e rispedendole ai mittenti. Due contro due.
Lo stordito scappa in direzione del compagno, il quale fa lo stesso. Si scontrano, vanno a gambe per aria. Shin precipita su di loro e li finisce. Sorriso contro sorriso.

‘‘Al tempio!’’.

È l’inferno. Gli scaffali con la scritta ‘‘Sokjanggyeong’’ sono in fiamme. Le due si fanno strada coprendosi il volto con la manica. Lucciole rosse, fuliggine e lembi di pergamena danzano trascinati dal vento. Shin tenta di estrarre una tavola dallo scaffale incandescente, ritrae la mano, ritenta, ci riesce.
Hye le pone una mano sulla spalla, mostrandole una fila interminabile di tavole che si perde in una coltre fumosa.

‘‘Ormai tutto è perduto’’.

‘‘No!’’, esclama un vecchio pelato: stoffe carbonizzate e un rotolo fra le mani.

Shin e Hye gli vanno incontro, sorreggendolo sulle spalle.

‘‘Qui è conservata la trascrizione dei Sokjanggyeong del Daegak Guksa. Le tavole originali sono perdute, ma il loro contenuto può ancora lasciare quest’inferno. Tenete, giovani monache, e che il Sutra del Loto…’’. Sgrana gli occhi, muore.

Le monache si allontanano con un balzo, mentre il corpo del vecchio viene risucchiato verso il nero.

‘‘Consegnatemi la pergamena’’, grugnisce una voce senza corpo.

Shin copre Hye, mentre infila la pergamena nella tasca della veste. Un attimo dopo sono in posizione di combattimento.

La catena uncinata è ancora impastata dei resti del monaco, quando un gigantesco orco emerge dall’ombra fumosa.

‘‘La pergamena!’’.

La coppia tace, la bestia ghigna. Scaglia l’uncino in direzione delle donne, che schivano il colpo. La catena rimane in tensione. Uno strattone, e l’ intero scaffale frana alle loro spalle, travolgendole. L’orco sguaina la scimitarra e avanza. Shin e Hye si liberano dal peso degli scaffali con una spinta coordinata. Il fendente del mostro le manca per poco, generando un vortice di carbone e trucioli che le scaraventa agli antipodi.

‘‘Hye scappa! Metti in salvo la pergamena!’’, grida Shin, scagliandosi verso il nemico.

Un lungo respiro. Hye compie un passo, esita, osserva la tasca gonfia, fugge.

Grida strazianti e suppliche: l’intero monastero è messo a ferro e fiamme. Hye corre veloce, saltando cadaveri, scavalcando macerie, tuffandosi a testa bassa entro fauci di magma.
Giunge ai piedi delle mura semidistrutte, oltre le quali si apre una fitta boscaglia. Tenta un balzo ma qualcosa la blocca: è la catena del mostro, attorcigliata alla sua caviglia. Hye cade nelle braccia della bestia che le strappa la pergamena dalla sacca, e scaraventa il suo corpo contro un albero.

Una pergamena vuota si srotola sotto gli occhi increduli del mostro. Hye sorride, prima di perdere i sensi. ‘‘Salve o gioiello del fiore di loto’’.

Una pergamena ricca di ideogrammi si dispiega sotto le lacrime di Shin. Dalla cima della collina, l’inferno sembra innocuo.

‘‘Nobile Hye, il tuo sacrificio non sarà stato invano’’. Om mani padme hum.

E corre via.

Esiste davvero un futuro anteriore? Avremo mai una concreta possibilità di dare un volto ad eventi che consideriamo come compiuti, ma che in realtà si collocano nell’ambito dell’avvenire e dell’insicurezza? A differenza del futuro semplice, quello anteriore è una forma temporale paradossale: esso si rivolge al futuro come se fosse già accaduto, come se potessimo osservarlo affacciandoci sulle sue rovine ancora fumanti. Il futuro anteriore incarna un corto-circuito logico e verbale.

Non ci parla di quel che è, né di quel che sarà: ci parla di quel che sarà stato.

Può però rivelarsi prezioso per codificare e renderci più chiara l’evanescente forma che può assumere il presente, compresso sotto il peso della storia, nel suo perenne oscillare sull’orlo di un precipizio senza fondo, senza che a noi venga data altra conoscenza oltre alla ridotta superficie di quel ciglio affacciato sul nulla che ci attende.

Il futuro anteriore sarà la sola arma a nostra disposizione per pensare a un tempo che sopravviva alla Catastrofe, capace di dialogare con quello che abitiamo.

Pensare il divenire

“Il futuro anteriore è una forma verbale che indica eventi, esperienze e fatti considerati come compiuti, ma che si trovano nell’ambito dell’avvenire o in quello dell’insicurezza”  (Wikipedia, in una delle sue effimere versioni). La differenza tra futuro anteriore e futuro semplice è simile a quella tra i concetti di microinvenzione e macroinvenzione, usata dagli storici per analizzare il complesso di innovazioni in campo tecnologico e scientifico introdotte nel periodo della Rivoluzione Industriale. Se la microinvenzione rappresenta un upgrade di una tecnologia già nota, la macroinvenzione apre filoni tecnologici completamente nuovi, con la scoperta di qualcosa di veramente inedito, attraverso una soluzione di continuità col passato. E se futuro semplice e anteriore non fossero solo delle forme verbali, ma due modalità di esperienza del futuro? Non stiamo parlando dell’atteggiamento ottimista o pessimista verso il futuro, ma della “gittata” del nostro sguardo sul divenire. Un divenire utopico e non utopista, capace di mostrarci discontinuità con quell’idea di “presente invecchiato” che sembra pervadere la nostra epoca.

Riusciamo ad immaginare una sequenza infinita di microinvenzioni applicate alla nostra realtà e alle principali novità che la contraddistinguono (l’equivalente del futuro semplice), ma non abbiamo nessun controllo sulle macroinvenzioni, eventi discontinui rispetto al presente ma probabilmente le vere soluzioni di continuità fra passato e futuro (futuro anteriore). Questa lettura si applica ovviamente non solo alla tecnologia, ma ad ogni aspetto della società e della cultura.

 Nel passaggio fra XIX e XX secolo, i grandi mutamenti tecnologici generarono uno sfasamento dei paradigmi di spazio e tempo nella società occidentale, e presto in tutto il mondo. Secondo Stephen Kern, nel suo Il tempo e lo spazio 1 , l’introduzione dei mezzi di comunicazione a distanza (telegrafo, telefono, ecc.) e dell’ora ufficiale, determinò la percezione di un futuro imminente, simultaneo e controllabile 2 .
Eppure, già a partire dagli anni Sessanta del XIX sec., Jules Verne e altri scrittori, resero popolare il genere fantascientifico, fino a H. G. Wells 3 che in una conferenza del 1902 intitolata La scoperta del futuro, individuava una categoria mentale analoga al nostro futuro anteriore in quel pensiero utopico (“ammontare relativo di pensiero”) che vede il futuro come “fonte di valori e guida per l’azione, in modo assoluto e incondizionato dal passato” 4 .
Dopo la Grande Guerra, all’idea di un futuro attivo si sostituì quella di un futuro dell’aspettativa, un “futuro passivo”.

Secondo numerosi storici, oggi il futuro è esperito come continuazione del presente anche a causa della rivoluzione digitale. Il nostro paradigma temporale è caratterizzato da un’esperienza di simultaneità che provoca un’accelerazione della storia e genera un presente dilatato che ingloba passato e futuro. “Un tempo intensivo di una istantaneità senza storia… dal tempo della cronologia si è passati a un tempo che si espone alla velocità della luce” ( Paul Virilio). Accelerazione della storia, restringimento dello spazio e  individualizzazione dei destini sono i paradigmi antropologici della nostra epoca, secondo Marc Augè.

Per questi motivi, pensare in modalità “futuro anteriore” si rivela particolarmente interessante per ragionare intorno al tema della conservazione e trasmissione del sapere su Internet e sugli scenari futuribili che questo medium “avrà potuto” generare sulla realtà.

Oggi il paradigma del presente-dilatato sta favorendo il networking ma tende a cancellare la cronologia 5 . Cronologia a tempo breve 6 e individualizzazione dei destini 7 causano la perdita del senso di futuribilità.

Esiste un legame profondo tra il senso che una civiltà riesce a darsi e le tracce di sé che coscientemente tramanda. Infatti, molte delle tracce giunte fino a noi non sono necessariamente legate al rapporto consapevole che una data civiltà poteva avere con il futuro, bensì pure tracce costitutive 8 .
Potremmo idealizzare un mondo passato, intento a sacralizzare la propria cultura, quando invece quella sacralità risiede soprattutto nel nostro occhio di osservatori. In questo caso la domanda da porsi è: la nostra prospettiva di valutazione nei confronti dei reperti storici, quanto è schiacciata anch’essa sul “presente invecchiato”?

Il nostro bagaglio culturale è sottoposto ad una selezione continua, di cui spesso nemmeno noi stessi abbiamo percezione: essa ha conseguenze importanti sulla modalità di conservazione e di trasmissione delle informazioni, consentendo ad alcune di trovarsi in una situazione di vantaggio.

Tra i fattori principali, troviamo la diversificazione delle fonti 9 e la quantità 10 .
Questi fattori influiscono ovviamente sulle chance che tali fonti riescano a superare indenni il tempo e le insidie che nasconde. In questo senso, l’epoca che produce cultura ha maggior peso nella selezione di ciò che ha prodotto. Tuttavia, non è assolutamente possibile immaginare come tali elementi saranno recepiti ed interpretati in futuro.

Sulle monete da dieci centesimi di euro coniate in Italia si trova il volto della Venere di Botticelli. Questa scelta aumenta considerevolmente la possibilità che tale raffigurazione possa tramandarsi in un lontano futuro, cosicché una moneta diventa di colpo un documento importante per la storia dell’arte nei secoli a venire (d’altronde, non ci resta nessun quadro su tela o legno del mondo greco e romano). Ma allora gli uomini saranno in grado di comprendere che si tratta di un’immagine tratta da un quadro famoso? Riconosceranno l’autore e il periodo di esecuzione? L’assoceranno alla storia dell’arte italiana o sarà solo un generico volto di donna?

Possiamo immaginare una sorte simile per gli odierni tablet e smartphone. Sarà automatica la consapevolezza che essi celano una mole enorme di dati? I futuri archeologi saranno in cerca dei file digitali o solamente di silicio da reciclare? Del resto, quante iscrizioni romane sono state impiegate per secoli solo come materiale da costruzione, prima di essere “riscoperte” dagli studiosi?

L’archivio, luogo privilegiato per la conservazione del sapere, non è un semplice “spazio di stoccaggio” ma strumento “vitale” per il commento e la riutilizzazione dei dati. La vitalità dell’informazione, in qualche modo, ne costituisce la sola possibilità oggettiva di sopravvivenza, legandosi in maniera radicale all’aspetto della sua diffusione e del superamento del legame a un limitato numero di formati.

Questa è una delle letture possibili di Fahrenheit 451 di Ray Bradbury, dove va letteralmente in cenere l’illusione di immortalare la cultura umana su oggetti inanimati (in questo caso la carta), perché in ultima istanza l’unico vero supporto della cultura è la materia cerebrale. L’introduzione del digitale ha reso molte fonti più fragili e deperibili ma al contrario del deposito cartaceo, ha creato un sistema di archiviazione dinamico che ha reso i documenti “vivi”, funzione della nostra civiltà.

Nell’ottica di pensare il Web come archivio, è necessario elaborare una dialettica della conservazione fra oblio e consumo dell’informazione. È Paul Ricoeur 11 a porre l’oblio come momento costitutivo della memoria e dunque fondamento di possibilità del ricordo e della testimonianza, giacché una memoria che si sforzi di ricordare ogni cosa (sindrome da “ansia di stoccaggio”) è già in partenza una memoria bloccata e dunque inefficace. In questa riflessione vi è la chiave di quanto incida una sorta di selezione naturale nella conservazione dei supporti e delle informazioni in essi racchiuse.

La premessa di un’ipotetica catastrofe, in grado di sottrarre al futuro le nozioni necessarie a comprendere e interpretare quel che l’ha preceduta, si basa su questo principio. Ad esempio Internet, la più vasta rete informativa globale, non è solo una somma di protocolli, ma è basata su supporti materiali, energia elettrica, persone che curano i contenuti e un sistema economico-industriale in grado di produrre su grande scala i dispositivi di cui sopra. Se uno solo di questi aspetti andasse in crisi, coinvolgerebbe tutta la rete e non sarebbe possibile tornare indietro: come tentare rimettere il dentifricio nel tubetto. Sarà sempre possibile costruire una nuova Internet ma ricostruire i contenuti di quella vecchia, che sono ipertesti dinamici, a partire da qualche hard disk o da tanti hard disk ritrovati dagli archeologi del futuro, sarebbe oggettivamente impossibile.

La biologia insegna che non si può ricostruire il pensiero di un uomo avendo a disposizione il suo cervello morto, anche se conservato perfettamente negli anni. Non tutto quindi sarà  conservato, ma sopravvivrà quanto avrà avuto la maggiore diffusione oppure la conformazione più adatta a mantenere una propria integrità nel tempo.

Possiamo volgere i nostri interrogativi in due direzioni differenti ma contigue: quello che un tempo rappresentava l’imponenza strutturale di una piramide, potrebbe in futuro venire replicato da una nuova tecnologia di conservazione e archiviazione dei dati, facilmente riproducibile? Oppure si tratta, per la quantità di informazioni da stoccare a discapito della fragilità dei supporti, di una battaglia persa in partenza?

Primo tempo

Una cascata di reminescenze bollenti precipita nell’infusore del Grande Illuminato. Il vapore concede un abbraccio setoso prima di uscire dal tempio.

Dalla montagna.
Dall’isola.
Dall’apocalisse.

Sugi, il gran maestro.
Yun.ui, il funzionario imperiale.
Xiu, il calligrafo.

<Sugi> 100 anni fa i nostri antenati portarono a termine un progetto ambizioso. raccogliere la saggezza del millennio passato per tramandarla a quello successivo. oggi abbiamo assistito al loro fallimento. in pochi istanti, il frutto di 88 anni di lavoro è andato in fiamme. ma siamo ancora qui. fuggiti in quest’isola dopo l’invasione, oggi ci riuniamo per comprendere gli errori, ricucire gli strappi col passato e guardare nuovamente con gli occhi del futuro.

‘‘Il futuro è nell’hardware’’ — ruminò Yun.ui, lisciandosi i baffi.

‘‘That’s insolentia!’’ — sbottò Xiu, strozzando l’effetto dell’infuso.

<Sugi> calma. questa sera siamo ombre e dovremo agire come tali. la segretezza di questo convivio è necessaria affinchè Lui

<Yun.ui> Lui non sa.

<Xiu> Lui will know solo i results, se mai it will be.

<Yun.ui> i risultati, my old drunkard, ci sono e presto saranno evidenti a tutti. prima dell’invasion, ero vicino alla costructione di un device che renderà obsoleti gli actuali systemi di scrittura e conservazione della memorya.

<Sugi> è questo il punto Yun.ui. chi può dirci che l’attuale di oggi, non sarà obsoleto domani? forse l’errore dei nostri antenati è stato questo. guardare al domani, e mai ‘‘oltre’’ il domani, pensando che ciò che è valido oggi, lo resterà per sempre. ci rimane ignoto persino il significato della grande pietra alle pendici del monte.

<Yun.ui>: se il tuo orecchio è brillante quanto la tua art oratoria, maestro Sugi, non avrai problems nel comprendere l’exceptionalità della mia scoperta. reasoniamo

Meanwhile, dalle pendici del monte un grosso masso oblungo osserva i bagliori del convivio.

Yun.ui fu meticoloso. Device, writing and storage: un millennio d’informazione fu spolpato in pochi ammirevoli minuti.
Il primo errore: dividere i processi. ‘‘Come splittare la realtà dall’illusione’’ — puntualizzò Sugi, mentre Xiu stappava la boccia di liquore no 2.
Secondo errore: rendere le
informazioni read-only. Abbiamo scritto, codificato e infine sepolto i documenti nei file.

‘‘O fail!’’ — come motteggiò Xiu, palesemente brillo.

Stoccare, innalzare sistemi di sicurezza e ordinare per i tempi a venire. Tempi d’oggi, in cui i datacenter delle montagne vengono dati alle fiamme. Per Yun.ui non rimane che tornare all’oralità or

Si lisciò i baffi.

‘‘Orrr what?!’’ — incalzò Xiu paonazzo.

<Yun.ui> oppure possiamo pervertire la situatione a nostro favor.

I rami del bosco tossirono.

Furono gli unici ad interrompere l’arringa del funzionario.

<Yun.ui> il mio device può liberare i file dall’hardware e farli slidare liberi come la parola, perché se ne potrà replycare il contenuto a partire da matrici pre-codificate.

<Xiu> se deletiamo la fase di storage deletiamo also il payload!

<Yun.ui> l’originale è secondario, quando abbiamo la possibility di replycare not solo il payload, ma i systemi per produrlo e spreadarlo.

‘‘Foolish!’’ — disse Xiu sputando il terzo tappo della nottata — ‘‘Lo storage è ritmo! And è il ritmo a scandire i tempi del knowledge’’. Ingollò sino all’ultima goccia. Era il degno erede del grande Zuì wēng (the old drunkard). Sugi impugnava salda la tazza.

<Yun.ui> con questa invenzione rivolutionarya non dovremo preoccuparci di preservare i file in un solo luogo, but si
potranno exportare in tutto l’impero i mezzi per replycarli. la velocità di scrittura e lectura sarà notevolmente aumentata.
Non sarà più sufficiente un simplice rogo a distruggere i data, perché la conoscenza sarà cloudy.

Il sorriso di Sugi tramonta sul bordo della tazza.
La stanza s’ingoia in una nuvola di vapore acqueo.
Buio.

Il tempo permette alla pianta della conoscenza di crescere, fortificarsi, e distribuire i propri frutti. La catastrofe del tempo ne recide le radici. Ciò che oggi risplende alla luce di una comune intelligibilità, dopo la catastrofe potrà assumere le sembianze di una distesa di fogliame da cui sarebbe impossibile risalire all’albero capace di infondergli la vita.

Avremmo mai potuto riconoscere negli antichi geroglifici egizi qualcosa di differente da semplici decorazioni, se non avessimo rinvenuto la Stele di Rosetta? Come si può guardare a un messaggio come tale, senza possedere un’ulteriore informazione che, precedendolo, ci riveli la sua funzione culturale? E come potrebbe questo qualcosa parlarci, se non possiamo dirci sicuri di poterlo interpretare come messaggio? La forma di ogni conoscenza coincide con l’esistenza e la fruibilità del suo contenuto.

Non esiste informazione senza formattazione.

Un file è un geroglifico. Senza precise indicazione sul suo formato, e sulle conoscenze necessarie per leggerlo e convertirlo nell’immagine di ciò che contiene, esso rappresenta soltanto l’alfabeto di un pianeta che non potremo mai raggiungere. Un mondo perduto nelle spire dello spazio e del tempo. Potrebbe rappresentare indifferentemente il suono di una voce, l’intessuto di un arazzo, o qualsiasi altra cosa saremmo in grado di ipotizzare, ma resterà per noi del tutto privo di senso compiuto.

Quanto una pietra scolpita dalla mano del tempo, rinvenuta sull’argine di un fiume.

Formattare il deperibile

Un file è un geroglifico. Se non si hanno precise indicazioni sul suo formato, esso potrebbe rappresentare indifferentemente un testo, un’immagine, un video o qualcosa che un domani apparirà priva di senso. Potrebbe non essere nemmeno “informazione” nel senso consueto del termine, ma software eseguibile.

Un file di testo elementare sembra una cosa semplice: ce lo possiamo immaginare come una serie di cifre binarie 0/1, raggruppate otto a otto (cioè in byte), con ciascuna ottina/byte a rappresentare un carattere, una cifra o un segno di interpunzione. In termini di futuribilità, ogni corrispondenza di questo tipo risulta del tutto arbitraria.

Nel 1961 la codifica ASCII ha definito un centinaio di corrispondenze tra codici di 7 bit (quelli dell’esempio tranne lo zero iniziale) e caratteri base; anche se esistevano altre codifiche,  l’ASCII si è imposta sui concorrenti e le codifiche successive hanno esteso l’insieme di caratteri rappresentati conservando le corrispondenze per i caratteri base.
Purtroppo questa base è altamente insufficiente anche solo per trascrivere i linguaggi europei. In italiano esistono varie vocali accentate, così come in tutte le lingue romanze. Esistono le lingue morte europee, che hanno bisogno degli alfabeti etrusco o runico. Esistono i simboli matematici, zodiacali, alchemici.

I caratteri che possono costituire un testo sono una miriade in continua mutazione. Ad esempio nel 1996 è stato inventato un carattere che è presto diventato importantissimo: , il simbolo dell’unità monetaria Euro. Quale prova migliore che la leggibilità dell’informazione digitale dipende da quel che accade nel mondo offline?
Se di fronte alla crisi valutaria e debitoria crollerà la moneta unica europea, quel simbolo resterà come un monumento funebre all’euro defunto stampigliato sulle tastiere dei nostri computer solo per alcuni anni, ma molto più a lungo incastonato nelle tabelle di codifica di caratteri.

Per anni Paesi diversi hanno usato codifiche diverse, incompatibili l’una con l’altra; un file di testo scritto con la codifica italiana veniva interpretato in modo scorretto da un software anglocentrico, le email inviate dall’estero ci arrivavano piene di strani simboli e punti di domanda. Il sistema Unicode, che viene sviluppato negli anni Novanta ma si impone lentamente solo grazie all’ubiquità di Internet, cerca di mettere ordine in questa babele creando un set straordinariamente ampio capace di contenere quasi 700 milioni di caratteri. UTF-8, che è la più utilizzata e versatile codifica di Unicode, è costruita in modo che ogni carattere sia rappresentato da un numero variabile di cifre binarie 0/1. I caratteri base sono lunghi 8 bit, cioè un byte, anche in UTF-8:
01000011 = C
01101001 = i
01100001 = a
01101111 = o
00100001 = !

Questo è un esempio di efficace “compatibilità all’indietro” tra UTF-8 e ASCII: un testo ASCII è anche un testo UTF-8. Ma non viceversa:
11000010 10100001 = ¡
01001000 = H
01101111 = o
01101100 = l
01100001 = a
00100001 = !

Il punto esclamativo invertito dello spagnolo (¡) ha richiesto due byte (16 bit). Immaginiamoci la difficoltà per un interprete che non avesse a disposizione la tabella dell’UTF-8 nel capire che nel primo caso i 40 bit rappresentano i 5 caratteri di “Ciao!” ma che nel secondo caso i 56 bit non rappresentano 7 caratteri ma soltanto 6.

Questo esempio ci mostra inoltre come un’evoluzione ordinata e “gestita” dei formati possa creare una linea di continuità attraverso la compatibilità inversa. Questo tipo di compatibilità è potuta esistere perché, di fronte alla necessità di garantire che uno standard si imponesse su un corpus di milioni di documenti e applicazioni già esistenti, sono state sconfitte le  pressioni centrifughe degli standard nazionali e delle aziende private, con l’imposizione di uno standard stabilito da un consorzio internazionale. Sebbene questo consorzio abbia seguito dei criteri apparentemente solo tecnico-scientifici, i suoi membri a titolo pieno sono 9 grandi compagnie 12 , l’Università di Berkeley e cinque istituzioni governative dell’India e dello Sri Lanka 13 .
Si entra nel consorzio pagando una quota d’iscrizione che è indicata sul sito dello Unicode Consortium. Il modo in cui la nostra civiltà trasmette le informazioni alle generazioni future è determinato da chi può pagare la quota d’iscrizione?

Se la mera codifica di un contenuto dalla struttura minimale come un file di testo semplice apre queste difficoltà, quali sfide comporta l’interpretazione dei formati in cui sono memorizzati contenuti più complessi come documenti testuali contenenti informazioni sui font tipografici usati, sulla suddivisione logica del testo in capitoli e paragrafi, che permettono l’inclusione di immagini, note, frontespizi, indici, video, siti web?

Altro problema si pone con le tracce persistenti di interazioni sociali online, che rappresentano oggi una parte importante della produzione culturale umana: nel futuro come sarà possibile ricostruire una discussione nei commenti di un blog, attorno ad un hashtag di Twitter, sotto un post di Facebook? Stiamo parlando di informazioni che non sono neppure registrate su un singolo file, ma spezzettate in centinaia di record di database.

Il mestiere dello storico ha sempre dovuto affrontare il problema della conoscenza esoterica contrapposta a documenti pubblici: informazioni registrate in codici segreti o per allusioni, che erano comprensibili solo agli insider già ai tempi in cui erano state prodotte. Sette religiose, ordini militari, servizi segreti, cultori di discipline occulte filosofico-scientifiche: dai pitagorici agli alchimisti, le corporazioni hanno sempre utilizzato i propri codici chiusi.

Oggi i formati chiusi sono un escamotage commerciale: un’immagine modificata con Adobe Photoshop può essere salvata nel formato “.psd” le cui specifiche sono un segreto industriale, così come i file musicali salvati nel formato “.wma” di Microsoft. I formati chiusi sono spesso congegnati in modo da essere di difficile interpretazione, cosicché solo il software prodotto dal padrone del formato possa leggerli. Anche in quei casi – piuttosto frequenti – in cui l’azienda proprietaria del formato ne “apre” la documentazione, se si tratta di formati nati per essere esoterici essi resteranno tali per chi in un futuro lontano cercasse di decifrarli senza essere in possesso della specifica documentazione.

Mettersi nel punto di vista del futuro anteriore significa mettersi nel punto di vista di chi deve fare reverse engineering, ingegneria inversa: partire dal prodotto per arrivare al progetto. Se un giorno trovassero un tablet, e “scoprissero” che non è soltanto uno specchio, o per qualche ragione dovessero risalire alla sua “funzione” (che già oggi è in perenne divenire e  soggetta a confusioni), allora a quel punto il reverse engineering “farebbe il resto”?

Il problema della perdita di memoria è preponderante. Sta a noi fare in modo che ogni nuova tecnologia non sovrascriva quella precedente, come accaduto ad esempio con i floppy disk (e come sta accadendo con i CD-ROM/DVD), che da supporto standard sono passati alla totale obsolescenza nel giro di una decade. Sindrome di stoccaggio, ansia da prestazione tecnologica.

Immaginate una memoria planetaria incancellabile, i cui contenuti vengono incessantemente duplicati, diffusi in ogni angolo del pianeta, da dove ognuna delle informazioni stoccate può essere facilmente fruita, replicata, diffusa con le tecnologie più diverse. Una volta che un’informazione entra in circolo al suo interno, se ritenuta di interesse comune, conoscerà una diffusione praticamente inarrestabile.

La Rete è la memoria collettiva. Potenziata da un’ininterrotta crescita tecnologica e strutturale, essa acquisisce le sembianze di un super-cervello mondiale. Gli esseri umani divengono una sconfinata e pervasiva rete neurale, capace di renderla, col passare del tempo, sempre più in grado di migliorare le proprie prestazioni, ottimizzandone il funzionamento fin nelle sue parti costitutive. L’immenso encefalo cibernetico della civiltà contemporanea, popolato dai suoi sogni e dai suoi incubi, del suo passato prossimo e di quello più remoto, dei suoi progetti migliori e delle più profonde angosce, e delle infinite maniere per raccontare tutto questo, pulsa al ritmo di una crescita apparentemente infinita.

Le sue qualità sembrano poter fare di questo immane organo biomeccanico una macchina indistruttibile ed eterna, dalle dimensioni virtualmente infinite.

Nessun rogo minaccerà la futura biblioteca d’Alessandria, nessuna oscura tirannide orwelliana potrà riscrivere la storia cancellando le tracce del passato. La Nuova Atlantide, mentre affonderà nell’infernale gorgo della propria distruzione, verrà vista risorgere nelle migliaia di duplicati virtuali capaci di renderla eterna. La Rete la renderà inaffondabile.

Web dilemma fra ottimismo e pessimismo

Nonostante gli evidenti attacchi che la libertà della Rete sta subendo, molte persone credono che proprio tramite essa si garantirà la trasmissione del sapere in tempi futuri. Il Web, lo strumento oggi più potente per la condivisione dell’informazione, fungerà da vettore per la loro salvezza e trasmissione. Il “Mito della Rete” è sempre più emergente. Si tratta dell’idea di una rete onnipervasiva, eterna, inarrestabile, capace di integrarsi perfettamente con le caratteristiche dei suoi utenti, di autoalimentarsi ed evolversi autonomamente in base alle proprie capacità strutturali.

Attraverso la loro crescente diffusione, le informazioni condivise in rete sembrano poter vantare due modalità per garantirsi maggiori possibilità di sopravvivenza: una quantitativa e una qualitativa.

La prima è legata all’aspetto puramente numerico che influenza statisticamente le possibilità che una data informazione vada perduta, offrendole la possibilità teorica di coprire, con la sua diffusione, un’area equivalente all’intera superficie emersa del pianeta. Il secondo aspetto, riguarda la capacità delle informazioni di potenziarsi, diventando meno dipendenti da quella stessa, pervasiva tecnologia che le ha prodotte e ne ha permesso la fruizione. Infatti la diffusione di un’informazione aumenta anche le possibilità che vadano via via  diversificandosi i formati in cui è conservata e formattata: più persone saranno in loro possesso, maggiori saranno i modi in cui gli stessi dati saranno stoccati.

Salvato su differenti sistemi operativi, riprodotto su vari supporti rimovibili, stampato su diversi tipi di carta o pellicola, un dato risulterà sicuramente meno dipendente dalla fragilità e deperibilità di un singolo formato o materiale. A rassicurare chi teme l’obsolescenza dei formati digitali è la crescente diffusione dei formati aperti e non proprietari (il cosiddetto copyleft).

Ad oggi, i file condivisi sulla rete sembrano un patrimonio virtualmente indistruttibile, mentre lo stesso accesso a Internet appare a molti impossibile da limitare in modo definitivo. Se tante persone soffrono limitazioni, si ritiene che possa statisticamente favorire la formazione di singoli utenti o associazioni che si impegnino a sabotare, in nome di un libero accesso alle informazioni, quegli stessi tentativi di censura. L’implementazione di Internet attraverso strumenti fisici (reti, cavi, computer ecc.), pur ponendo un attualissimo problema energetico, non limita il fatto che le informazioni memorizzate grazie ad esso siano, in qualche modo, trascendenti. Finché Internet sarà “viva”, potrà servire a tramandare informazione e cultura. Di che tipo? Questo sta a noi deciderlo.

Queste visioni ottimistiche e mitizzanti sulle potenzialità della Rete trovano un loro contraltare in chi è convinto che il cosiddetto mito della Rete sia soprattutto il frutto di una fallace “ideologia della non-ideologia”. Per questi ultimi, infatti, affidarsi all’eterogeneità della rete come garanzia di imparzialità, democrazia, deposito eterno del sapere, rivelerebbe un equivoco di fondo: l’incapacità di comprendere che non sono tanto i contenuti immessi e gli utenti che li condividono a determinare la struttura di Internet, bensì una sua propria realtà ontologica che si manifesta nella stessa tecnologia che la pervade.

I “mitomani” della Rete, puntando sulla diffusione dei contenuti come unico significante, sembrano infatti dimenticarsi che a rappresentare il vero contenuto ideologico della stessa sono, in realtà, proprio quelle forme significanti entro cui rientra anche l’argomento dei formati e dei protocolli utilizzati. La tecnologia diviene quindi la chiave interpretativa non solo ad uso del sapere, bensì della stessa possibilità che hanno gli utenti di metterlo in circolo. Come dire: non c’è accesso alla condivisione del sapere senza il pieno controllo sulla tecnologia che lo determina.

È importante sottolineare il ruolo ricoperto dagli Internet Provider di livello 1, ovvero quella decina di router che compongono la spina dorsale di Internet. Questo significa che, in linea teorica, un minimo numero di organizzazioni controlla il traffico dati di una mole enorme di nodi di rete, rendendo molto difficile rifugiarsi nell’anonimato anche con sistemi che ne prevedano la possibilità 14 .
In questo modo, i cosiddetti centri di controllo sul sapere divengono veri e propri accumulatori mobili di grandi dimensioni, che si mettono in risonanza l’uno con l’altro, riuscendo a creare un potere che, seppure privo di un centro definito, si può tranquillamente definire accentratore.

A distanza di 30 anni, quel ramo scientifico che si occupa di Teoria delle Reti o Piccolo Mondo applicata al Web, concretizza quel modello filosofico approntato all’inizio degli anni ’80 dai filosofi Gilles Deleuze e Félix Guattari nel loro Millepiani 15 , dove si definiscono i concetti di realtà segmentata primitiva (rizomatica) e moderna (arborescente), ammettendo che l’una si sviluppa grazie all’altra in un sistema fatto di strati, flussi, concatenamenti e buchi neri che ricorda molto l’organizzazione dell’odierna Internet.

I grandi hub, i nodi che compongono e accentrano le connessioni, creano un circolo di potere decentrato e invisibile che, come descritto da Wu Ming nei post sul “feticismo digitale”, ha creato una nuova forma di sfruttamento dolce degli utenti/lavoratori. L’insorgente idea di pensare la Rete completamente rizomatica, quindi flessibile, è e sarà la causa di controlli ancora più forti da parte di quei centri di potere ( social network, grandi provider, web hosting, ecc.) che mirano proprio sulla loro supposta gratuità e personalizzazione per imporre sottilmente i propri paradigmi e guadagnare sfruttando i contenuti altrui. Non a caso, Deleuze e Guattari parlano del fascismo in termini di “micro-buco-nero che vale per se stesso e comunica con gli altri, prima di risuonare in un grande buco nero generalizzato” 16 .

Rischia di definirsi in maniera ancor più rigida quella gerarchizzazione definita da Mark Buchanan nel suo saggio di teoria delle reti Nexus 17 dove questi classifica le reti in egualitarie 18e aristocratiche 19 . Nel caso del Web, l’aristocrazia è composta da quel ristretto nucleo di aziende che, rispondendo alla logica del profitto, detengono la maggioranza dei collegamenti e venendo a mancare ne determinano il blocco o il rallentamento globale. Nelle reti in espansione 20 i nuovi elementi 21 tendono a connettersi con gli hub 22 secondo una Legge di Potenza detta dei “ricchi sempre più ricchi”, la tendenza cioè a sviluppare pochi elementi con molte connessioni, e molti elementi con poche connessioni.


Grafico della Legge di Potenza


Ecco perchè sul Web i contenuti nei motori di ricerca sono indicizzati secondo popolarità, a discapito del valore argomentativo. Una rete tende a passare da aristocratica a egualitaria a causa del sovraccarico dei suoi hub. Tuttavia una rete egualitaria è più vulnerabile agli attacchi casuali, mentre quella aristocratica a quelli mirati 24 .
In entrambe, superato un “punto critico”, la rete rischia la disintegrazione o un cambio irreversibile. Queste teorie sono molto vicine all’idea di realtà segmentata di Millepiani e potrebbero indurci a pensare: cosa accadrebbe se la rete Web diventasse davvero egualitaria? Sarebbe più democratica, ma diverrebbe più vulnerabile.
O invece, come afferma Buchanan, se il Web è un ecosistema, cosa accadrebbe se togliessimo miratamente un certo numero di hub 25 ?

Il dubbio che sorge è che la vulnerabilità della Rete rappresenti un aspetto poco preso in considerazione da chi si professa ottimista sulla sua perpetuazione democratica nel tempo, e  sulla conseguente possibilità di diffondere in maniera multiforme la conoscenza, prerequisito del sapere.

Un’altra questione sollevata dai critici è se davvero il fatto che alcune idee circolino più di altre, risultando più condivisibili, basti a indicarle come quelle più meritevoli di essere tramandate. Tralasciando i fattori puramente di marketing che influenzano la ricezione e condivisione di un’idea/link 26 , la riflessione si sposta nuovamente sulla forma significante.

Dovremmo domandarci non quali, ma come certe idee si guadagnano il consenso delle persone. Attraverso quali canali e codici vengono fruite e, nel caso del Web, rielaborate e condivise. Inoltre, la fruizione di una pagina web non è assimilabile a quella di un libro: mentre quest’ultima determina la creazione fisica di un supporto per il sapere, con tutto quel che ne consegue in termini di conservazione, la prima sembra legata a una maggiore velocità e ipermediazione. La struttura epistemologica a hyperlink, assimilabile a quella medievale/antica delle segnature 27 , ha generato una forte tendenza all’ermeneutica gnostica e all’ideologia del complotto.

Il profilo medio degli utenti aderenti a movimenti, associazioni e culti internazionali praticati attraverso il Web è sostanzialmente quello dello gnostico: egli è un individuo criticamente attivo, alla ricerca della verità nascosta a cui solo i più meritevoli possono accedere (gli eletti).
Tuttavia questa verità non è mai definitiva e un link rimanda sempre ad un altro e così ad infinitum. Come sostiene il filosofo sloveno Slavoj Žižek in numerosi scritti, si tratta di una “negazione feticista”: un tentativo di non affrontare il cuore nocivo e vuoto della nostra realtà simbolica e ripiegare in una caccia fantasmatica di una matrix in perenne disvelamento. Un concetto molto vicino al “bispensiero” nel mondo di 1984 di George Orwell, che lo definisce come “essere pienamente consapevoli nell’indurre inconsapevolezza e diventare poi inconsapevoli della pratica ipnotica che avevate appena posto in atto.” 28 .

La Rete può diventare, e spesso diventa, il luogo della deriva interpretativa dove la nostra ricerca personale di verità rischia di intossicarsi in un’ overdose di link ricorsivi. Il sapere apparentemente “rizomatico”, che si diffonde in rete proprio perché privo di un centro, produce senza dubbio questo tipo di problematica, pur rappresentando, al tempo stesso, la risorsa più importante della Rete in termini di autonomia del sapere.

In fondo, nonostante i suoi legami con l’apparato militare statunitense, la struttura originaria di Internet era egualitaria e impregnata di cultura hacker. Un’eredità di quest’epoca eroica è il concetto di Net Neutrality, ovvero il principio per cui l’infrastruttura non deve discriminare economicamente l’invio e la ricezione di pacchetti dati sulla base dei loro contenuti. La neutralità della Rete così come il suo carattere costitutivamente aperto sono da sempre messi in discussione dalla formazione di quei rapporti di potere che la studiosa della globalizzazione Saskia Sassen ha definito come network power 29 .

Il potere nelle reti digitali è esercitato dagli Stati ma soprattutto dalle grandi corporation attraverso la formazione di reti private inaccessibili dall’esterno 30 , attraverso l’influenza sui consorzi che stabiliscono gli standard e che assegnano i nomi di dominio, attraverso tentativi di rottura della Net Neutrality 31 , attraverso la definizione di leggi e accordi internazionali. Inoltre, attraverso servizi di socializzazione, si attivano aziende che mettono a mercato le nostre vite private e di quelli con cui facciamo networking (Facebook ne è l’esempio più  conosciuto). Lungi dall’essere un’isola felice, Internet è dunque plasmata dal mondo in cui è inserita ed è uno “spazio conteso”; ogni ipotesi sul futuro della Rete incorpora necessariamente un’ipotesi sull’esito di questa contesa.

Secondo tempo

Cento anni prima, in quella stanza siede Uicheon, il futuro Grande Illuminato, colui che importò un nuovo encoding, una nuova dottrina e un nuovo modo per consumare il tè. Quel giorno, affida a queste parole l’inaugurazione della sua grande impresa:

‘‘Dopo mille anni,
che possa brillare all’altezza
del Sole e della Luna,
e competere con la profondità degli spiriti.’’

Luce.

Overstanding.

‘‘Ora capisco’’.

Xiu + Yun.ui lo guardano interdetti, ma lui continua.

<Sugi> ora capisco, che i nostri attuali sforzi saranno riesaminati da quelli che verranno dopo di noi.

<Xiu> + <Yun.ui> so?

<Sugi> non dobbiamo fare altro che tornare al futuro. rincorrerlo, superarlo e voltarci all’indietro per interrogarlo. così avremmo una visione comparata di passato e futuro da un punto di vista situato oltre il presente.

Xiu e Yun.ui sono nervous.

<Sugi> dobbiamo volare più alto del sole ma attraversare il mondo come gli spiriti. Uicheon l’aveva capito e non ci ha tramandato un precetto ma un processo, un colpo d’occhio. lo
scopo era condividere con noi il suo cammino, i suoi dubbi, la sua sete di futuro.

<Xiu> 100 anni ago, i nostri mentors lavorarono together. ora are dead e la quasi totality of loro lavoro, is gone, perduto.

<Sugi> ma quella sete non si è estinta con le fiamme, e ci pervade ancora!

<Xiu> that è true! — il tavolo vibra sotto il pugno dell’artista. 

<Sugi> l’informazione è un’epidemia che deve mantenersi viva, e diffondere il proprio virus per assurgere all’immortalità.

<Yun.ui> ecco perché i device ci helperanno a renderla viva. diffondendo i codex per replycarla, ognuno sarà in grado di accedere all’information. diventerà impossible bruciare il
payload insieme al datacenter perchè le matrici saranno dappertutto.

<Sugi> ma saranno vuote. supponiamo che il device sia in grado di diffondere capillarmente i dati, chi ci dice che fra 1000 anni queste singole matrici non saranno incomprensibili.
e se andasse distrutto ogni singolo device o il content delivery network fosse interrotto, saremmo in grado di tornare all’occhio e alla mano dell’uomo o sarà tutto irrimediabilmente confinato all’encoding di un device ormai obsoleto?

<Yun.ui> questo è il future, maestro Sugi. la mia invenzione revolutionerà il world.

<Xui> una revolution dove tutto is copy of tutto, ramificando l’information e with that anche eventual errori? hastiness will kill the future!

<Yun.ui> un futuro dove ogni singolo carattere sarà ricostruibile a partire da dispositivi a loro volta riproducibili.

<Xiu> un single charactere is nothing senza il vicino. il sense del typesetting è proprio this one. approachare characteri unici per creare one unico rhythm. il big sense scorre
sulla superficie of characteri, non con loro contenuto. 

<Sugi> il funzionario Yun.ui ha ragione  — Xiu rimane spiazzato — non possiamo arrestare l’accelerazione tecnologica, ma possiamo rallentare il pensiero. 100 anni fa Uicheon tornò
dal suo viaggio con nuove idee [guardate la teiera]. ci insegnò che la realtà vive d’illusione e sta alla nostra coscienza mediare i due flussi. scovare la realtà nel più illusorio degli scenari. oggi siamo messi alla prova su questo punto.

<Xiu> la nostra school vive by that. spendiamo la youngness a tracciare obsessively gli same segni. linea after linea, la nostra hand diventa automatic, but non è una machina.

<Yun.ui> why? replycate la realità e aspirate all’automatismo. siete artifacti.

<Xiu> siamo exacti! replychiamo la reality exactly e non veramente. così come non exists un ritmo vero, bensì exacto. signs, parole, phrases: componiamo una story coscienti that
vanisherà, like a disegno into sabbia in riva al mare. è il goal della nostra life.

<Yun.ui> per questo c’è bisogno del device. per impedire alle onde del tempo di deletare il frutto del nostro job, della nostra traditione.

<Sugi> o per soffocarlo. siamo destinati a lasciare questo mondo, ricordalo Yun.ui, e con la mente possiamo già farlo.

Una goccia scivola lungo la superficie convessa della grande roccia.

Una volta raggiunto il bordo:

cade.

<Xiu> un gesto è lost nell’attimo stesso in which is done.

<Yun.ui> qual è dunque il sense della nostra enterpresa, se sappiamo già che è destinata a failare?

<Sugi> fallire dici? Uicheon Guksa ha fallito se siamo ancora qui ad interrogarci su come ripensare il suo lavoro? il sapere di un millennio è stato tramandato fino a noi e sta a noi tramandarlo al successivo. poi spetterà ad altri trovare il modo più giusto per fare altrettanto. le scritture ci servono per respirare e ogni respiro è fatto di interruzioni e perdite di ossigeno. anche se ci fosse data la possibilità di controllare tutta la conoscenza del mondo, finiremmo con l’emettere un grande respiro e scorrere i millenni in apnea.

<Xiu> noi continue a writare maestro. io e my studentes metteremo a disposal il nostro inkiostro e la nostra patiencia per rebuild tutto from the beginning. ma every ideogramma sarà
un piece unico, not a replica like would il fucionaryo Yun.ui. che ogni page risuoni del beat armonico delle scritture. che l’atto sia tramandato throughout the history.

<Sugi> si, sommo maestro, ma a un patto: che il supporto su cui graffierete le vostre linee sia in grado di conservarsi a lungo e dare la possibilità a tutti di essere copiato e riprodotto.

<Xiu> conosco io il proceedings giusto, but requederà tempo, much tempo.

<Sugi> sapremo aspettare, la fine della guerra non sembra alle porte. nel frattempo Yun.ui avrà la possibilità di sperimentare l’efficacia del suo device. 

<Yun.ui> lo avrò e vi dimostrerò che la mia choice è better.

<Xiu> cheers! — sbucò una quarta boccia — all’enterpresa della Changgyeongdogam, che riporterà in life i Chojo Daejanggyeong and le scripture di Gyojang.

<Sugi> a Uicheon Guksa Daegak, una guida verso il buddhavha.

Isola di Ganghwa, Corea del Sud
Dinastia Goryeo
– 1236 d.c.

Cronologia

  • 1011: inizia l’opera d’incisione su legno della prima edizione dei Tripitaka Koreana ( Chojo Daejanggyeong) seguita nel 1090 dai commentari Gyojang, una raccolta di scritti buddisti commissionata dal regno della Corea ( Goryeo). A capo del progetto il monaco Uicheon, poi conosciuto come Daegak Guksa (grande illuminato) il quale, tornato dalla Cina importò lo stile calligrafico dei Song, un nuovo metodo d’infusione del tè e fondò la corrente buddista Cheontae.
  • 1232: la prima edizione e i commentari dei Tripitaka vengono bruciati dai Mongoli, durante l’invasione della Corea.
  • 1241: 214 anni prima della Bibbia di Gutenberg, il ministro Choe Yun-ui pubblica il primo documento stampato in caratteri mobili della storia; ad oggi ne rimane solo una copia in legno.
  • 1251: dopo 16 anni di lavoro, la compagnia di Sugi termina la scrittura silografica della seconda edizione dei Tripitaka Koreana ( Jaejo Daejanggyeong), la più grande e antica
    raccolta di canoni buddisti ancora esistente, comprendente 81.258 tavole di legno, per un totale di 52.382.960 ideogrammi unici, stilisticamente omogenei e privi d’errore.
  • 1398: i Tripitaka Koreana vengono trasferiti all’interno del tempio di Haeinsa. I due edifici chiamati Janggyeong Panjeon provvedono alla ventilazione delle tavole senza l’ausilio di mezzi artificiali e per il loro valore architettonico sono fra i tesori nazionali della Corea del Sud.
  • 1443 – 1444: re Sejong il Grande introduce un nuovo alfabeto, l’ Hangul, destinato a rimpiazzare la scrittura ideogrammatica Hanja usata nei Tripitaka. Nel 1895 i bambini coreani iniziano ad imparare l’ Hangul fin dalle scuole elementari.
  • 1995: i Tripitaka Koreana diventano patrimonio dell’Unesco.
  • 2011: la Corea del Sud festeggia il millenario dall’inizio della prima edizione dei Tripitaka Koreana e ne perfeziona la digitalizzazione iniziata nel 2004.
  • Nell’isola di Gangwha risiede il più grande dolmen della Corea del Sud. Misura 2.6 × 7,1 × 5,5 m e risale al VII sec. a.C.
    Probabilmente.

Questo Testo

Il 26 settembre 2011, Wu Ming 1 pubblica su Giap (il blog del suo collettivo) Feticismo della merce digitale e sfruttamento nascosto. Questo post ha un enorme risonanza, viene tradotto in altre tre lingue e scatena un dibattito oceanico (più di 500 commenti) diventando il post più commentato del sito. Le corde toccate sono evidentemente molto tese.

Lungo l’accesa discussione online, ad un certo punto, si sviluppa un sottodiscorso: cosa sarà delle informazioni e della cultura, oggi conservate su supporto digitale? Sul tema intervengono persone di diversa formazione: semiologi, archeologi, informatici, scrittori, semplici lettori incuriositi dal tema. Chi difende una visione ottimista, chi assume posizioni più problematiche; chi predilige affidarsi al passato remoto, chi spalanca visioni sul futuro dell’umanità. Tutti arricchiscono quella che sembrava una semplice divagazione discorsiva fino a trasformarla in un fitto e appassionante dibattito.

Se ci sono forme particolarmente volatili di informazione digitale, queste sono senz’altro le chat e i thread di commenti sui social network e sui blog. Tra l’altro, anche a prescindere da catastrofi che rompano la continuità della civiltà digitale, un articolo commentabile lasciato a sé stesso tende rapidamente verso uno stato entropico via via che troll umani e bot automatizzati lo prendono d’assalto, distruggendo la coerenza e la ricchezza di una discussione sana.

Conscio di tutto ciò, spinto dalla stessa preoccupazione di “salvare la polpa” che guida questa discussione sul futuribile, Wu Ming 1 scrive ai giapster intervenuti sul tema, chiedendo a chi se la senta di provare a trasformare quegli spunti in un “qualcosa” di più. C’è entusiasmo nell’aria e noi raccogliamo la sfida: nasce il progetto Futuro Anteriore (un nome un programma!). Siamo circa una dozzina, non ci siamo mai visti in faccia offline.

Come prima cosa si discute su come coordinarci e quale piattaforma utilizzare. Ben presto le ipotesi più strutturate vengono abbandonate a favore della semplicità e dell’immediatezza: apriamo una sorta di wiki su una piattaforma che si chiama Crabgrass sviluppata da Riseup, un collettivo radicale di Seattle. Là, viene creato un documento col collage di tutti i commenti pertinenti comparsi su Giap, documento che chiameremo Gran Bollito. Sul Gran Bollito cominciamo a lavorare collettivamente per ripulire, sintetizzare e aggiungere nuove citazioni e spunti provenienti dai rispettivi settori disciplinari (archeologia, lettere, informatica, filosofia, ecc.). Il bollito si divide in 3 grandi “macro-piatti” (Pensare il divenire, Ottimismo e pessimismo della rete, Supporti e deperibilità).

Il piano è ambizioso: finire tutto per S. Valentino. Così, stabiliamo una serie di fasi in modo molto preciso ma già arrivati alla terza, cominciano a girare email intitolate La temibile fase 3 che sembrano non promettere nulla di buono. Il lavoro sembra entrato in un vicolo cieco. Per fortuna due persone particolarmente determinate, Nexus e MattPumpkin, ad un certo punto prendono in mano il lavoro e ci portano fuori dalla palude. Sempre siano lodati.

In primavera abbiamo finalmente per le mani un saggio, eclettico ed eccentrico, sulla questione, che nessuno riusciva più a riconoscere come un suo prodotto individuale. Lo rileggiamo e ci sembra noioso. Si propone l’aggiunta di un pizzico di narrativa, l’aratro migliore per chi vuole seminare dubbi: dalla mailing list viene il via libera e Nexus scatena le sue doti visionarie e affabulatorie. Una versione dove il saggio è intercalato da sottili riflessioni orientali attorno al tè, prende forma, ma non ci basta: vogliamo più ambiguità interpretativa, non si deve capire bene se i coreani chiacchieroni siano nel nostro passato o nel nostro futuro; trasformiamo dunque la conversazione in una specie di chat su IRC in una lingua babelica da interregno, dove i cinesismi sono resi con anglicismi o latinisimi. Ma soprattutto, vogliamo più azione! Orchi invasori e monache guerriere fanno al caso nostro.

Arriva l’estate 2012, nel bel mezzo di una minacciosa crisi economica e politica del nostro continente. Tutte le distopie suonano preoccupantemente credibili e del resto la nostra mailing list si chiama dystopian…È ora che il nostro “oggetto narrativo-saggistico non identificato” venga alla luce. Riletto, corretto, revisionato.

Insomma, pronto per l’oblio.

Collettivo Gran Bollito

Note

1Il Mulino, 1988.
2Ad es. “il mito del futuro” nei Futuristi.
3Autore de La macchina del tempo, 1985.
4Kern, p. 125.
5Aggiornamenti sempre più veloci, tendenza all’archiviazione senza memoria.
6Altro esempio è la timeline di Twitter.
7O peggio ancora “collettività effimere” che ruotano attorno a centri di potere commerciali o aziende di “cool-to” come Apple.
8Si considerino i menhir o altre costruzioni capaci di resistere all’usura dei millenni.
9Disporre di un testo su file è un conto, disporre dello stesso testo su file, carta, pietra offre molte più garanzie.
10Quante riproduzioni della Gioconda esistono in tutto il mondo?
11Cfr. La memoria, la storia, l’oblio, Cortina Raffaello, 2003.
12Adobe, Apple, Google, IBM, Microsoft, Rearden, SAP, Oracle e Yahoo!.
13Paesi che per “complicazioni alfabetiche” hanno un forte interesse ad avere voce in capitolo.
14Ad esempio i progetti TOR e Privoxy.
15Castelvecchi, 1980-2010.
16Millepiani, p.271.
17Mondadori, 2003.
18Organizzate intorno a pochi hub che gestiscono la maggior parte delle connessioni.
19Rete aeroportuale, rete sociale, ecosistema, ecc.
20Nel Web, i siti o i contenuti o gli user.
21Grandi provider, motori di ricerca, social network.
22Colpendo quei 10 router, il sistema collassa.
23Cosi come un certo numero di specie animali chiave.
24La cosiddetta attività di SEO, Search Engine Optimization
25Analizzata in particolare da Umberto Eco e Michael Foucault.
26 1984, Mondadori Classici Moderni, p.38.
27 Digital networks and power, 1999, e opere successive.
28Reti fisiche, basate su un’infrastruttura alternativa a quella di Internet, o reti private virtuali che usano Internet come sostrato.
29Il SEO si occupa di trovare “corsie preferenziali” per far viaggiare alcuni tipi di dati a scapito di altri.

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45 commenti su “Futuro anteriore. Archeologia del dopo – Catastrofe

  1. Il collettivo *Gran Bollito* è composto da: Aless, Anonimo Coniglio, Elettra, Errico Bresci, Ivan Iraci, Matt
    Pumpkin, Mauro Vanetti, Nexus, Steko e Vecio Baeordo.

  2. Pensavo che non avrei mai trovato il tempo per leggere tutto e invece una volta cominciato non sono riuscita a staccarmici fino all’ultima riga. Complimenti davvero a tutti, è un “oggetto” fantascientifico interessante e originale che come atmosfera mi ha ricordato Fondazione di Asimov, e non solo nella parte narrativa.
    A proposito della parte narrativa, belle le scene d’azione, come dicevo si tw ad Anonimo Coniglio, molto cinematografiche. E l’obiettivo dell’*ambiguità interpretativa* è pienamente raggiunto (pure troppo, in effetti la mia reazione dopo le ultime due righe è stata tipo “Ah. Ma allora non avevo capito una minchia…”)

  3. Ciao,
    so di essere fuori contesto e di questo chiedo scusa. Quando ho visto questa iniziativa, di cui poco o nulla so ma che non mi pare malvagia, in quanto fa conoscere nuovi blog, ho subito pensato al mio blog preferito (leggasi, più stimolante) quindi pensando di farvi dispetto facendovi perdere del tempo vi ho nominato nel One Lovely Blog Award!
    Per saperne di più:
    http://senza1senso.com/2012/09/07/one-lovely-blog-award-perche-no/

  4. Che dire? Davvero complimenti.
    Un’ opera che oltre ad essere interessante porta un significato ulteriore al contenuto grazie a quella che è è stata la sua storia e le modalità con cui è stata concepita. O, riesumando ancora una volta il nostro caro “feticismo”, un’ opera lodevole soprattutto per il “rapporto sociale determinato fra gli uomini” nella produzione dell’ opera stessa.
    Una meta-opera, se vogliamo, che critica ed analizza gli strumenti comunicativi che l’ hanno resa possibile, e che hanno reso possibile addirittura l’ incontro degli autori stessi :D

    Divertentissimi i dialoghi (che ancora mi chiedo se sono stati davvero un ispirazione “Hofstadteriana” :), e stimolanti le parti di contenuto, dove avete saputo toccare tanti concetti che invitano il lettore ad essere approfonditi ulteriormente.

    Per quanto riguarda la provocazione principale, oltre a pensare come la nostra informazione sopravviverà alla Catastrofe, forse è anche il caso di notare come lo sfrenato utilizzo indiscriminato di risorse necessarie ai nostri mezzi di informazione porterà esso stesso alla Catastrofe, un sistema di informazione, insomma, che taglia proprio il ramo eccetera eccetera…

    Un ultimo motivo per cui ho apprezzato il testo è la sensazione che sa dare, forse inconsapevolmente, di immersione dell’ attualità nella Storia. Una sensazione già riscontrata altrove, per altro anche su altre opere di WM, in cui si abbatte un muro immaginario tra l’ “oggi” e il “ieri”, tra il quotidiano e il libro di Storia, e che quasi ti lancia il provocatorio messaggio che i tempi cambiano, ma tutto il resto no.

    “Very complimenti to collectivo Big Bollito.” – Xiu

    • @Florian

      Grazie dell’apprezzamento. In effetti la modalità di produzione è stata una parte interessante del lavoro e perciò ne abbiamo voluto parlare sia nella prefazione sia nella postfazione.

      Sulla natura della Catastrofe, proprio perché è dietro l’angolo del futuro semplice non credo sia facile fare profezie. Abbiamo volutamente lasciato sul vago la natura della cesura storica; personalmente non credo neppure che sia inevitabile una cesura storica con caratteristiche apocalittiche “negative”, la Catasfrofe può anche essere semplicemente il passaggio a una forma di civiltà così radicalmente diversa dalla nostra da creare un prima/dopo altrettanto netto di quello tra preistoria e storia.

      C’è chi disse che l’umanità è in realtà ancora nella sua preistoria perché vive in un mondo diviso in classi sociali dove esistono lo Stato, il denaro, le nazioni ecc. Provate a spiegare all’uomo del Tremila l’attentato dell’11 settembre 2001 senza poter dare per scontato che conosca cose come il petrolio, le religioni, il denaro, le armi, i confini nazionali, magari neppure i grattacieli.

      Non serve ipotizzare che ci aspetti un inferno per parlare di Catastrofe. Anche per l’uomo del Paradiso saremmo incomprensibili. Come diceva quella T-shirt? “Quello che il bruco chiama fine del mondo, il resto del mondo chiama farfalla”… :-)

  5. …che dire, un grazie di cuore a chi si è sobbarcato tutto il lavoro di revisione e stesura finale…grandi!

  6. […] recente lavoro del gruppo-esperimento Gran Bollito, apparso da poco su Giap, parla di queste persone in termini […]

  7. Molto interessante.

    Provo ad aggiungere un aneddoto un po’ “scientificista” ma che, se preso con le molle, penso possa aiutare a inquadrare ulteriormente la questione.

    L’ambiente è una classe di un corso di laurea magistrale, a uno di quei corsi seguiti da quattro persone: teoria dell’informazione.
    Il professore iniziò la lezione raccontando di come molte astronavi della NASA contengano messaggi destinati agli alieni. Il tipo di messaggio è diversificato: disegni, scritte, CD musicali. E chiedendoci: a cosa serve mandare questi messaggi? Possiamo davvero comunicare con gli alieni?

    L’orgoglio matematico dei presenti pian piano iniziò ad uscire, svelando forme più sottili di “antropocentrismo”: se era ovvio che mandare un CD è inutile, non era così per le foto. Soprattutto, si congetturò la possibilità che alcuni concetti siano “primi” ad ogni mondo, ad ogni civiltà. Alcuni dei concetti matematici che si dimostrano onnipresenti nel nostro mondo (fisica, botanica, zoologia, arti visive) sono ad esempio la successione di fibonacci[1], o il rapporto aureo[2].
    Ecco l’idea: disegnare la serie di fibonacci è segno chiaro della comprensione di concetti matematici non banali; della comprensione che questi concetti sono un’astrazione della realtà.

    A riportarci con i piedi per terra è stata l’osservazione che, ad esempio, un banale rametto contiene già un’astrazione della successione di Fibonacci. Come avrebbero potuto capire se ciò che ricevevano era un oggetto “qualsiasi” o una manifestazione di una nostra intelligenza?

    Insomma possiamo operare una distinzione: c’è una parte di informazione che non riusciamo a comunicare perché è una particolarità della nostra cultura, del nostro mondo, e non è detto sia comune agli altri. C’è però anche un’altra parte che è la nostra analisi della realtà che ci circonda, e questa è altrettanto incomunicabile, perché è indistinguibile dalla realtà stessa.

    La lezione si concluse mostrando che per il teorema di Shannon la velocità di comunicazione tra due parti è uguale alla quantità di conoscenza che queste due parti condividono; senza una conoscenza comune, non c’è alcuna comunicazione.

    [1] https://it.wikipedia.org/wiki/Successione_di_Fibonacci

  8. Interessante l’ esempio proposto da scoglio.
    Tentare di comunicare con alieni è l’ esasperazione del problema qui poposto.
    Il punto centrale è proprio quello che esponi come teorema di Shannon: la velocità di comunicazione è proporzionale alla conoscenza comune tra i comunicatori.

    Ciò significa che nel primo caso, quello in cui dobbiamo trasmettere un messaggio agli archeologi del futuro, non abbiamo idea di quale potrà essere il loro bagaglio culturale nè il loro sviluppo scientifico, tuttavia a meno di considerare evidenti cambiamenti evoluzionistici, possiamo supporre di avere a che fare con individui dotati di una struttura mentale e logica simile alla nostra, il che ci può aiutare a capire come portargli un messaggio che loro possano tradurre.

    Nel secondo caso invece – alieni – non abbiamo nessuna base reale dalla quale partire, tanto per essere estremi potremmo avere a che fare con individui che hanno “sensi” diversi dai nostri, ergo sarebbe logicamente impossibile comunicare, dato che ogni messaggio spedito dall uno passerebbe per lo spazio circostante e dunque non potrebbe essere recepito in quanto non-oggetto dei nostri sensi.
    Ok, sto delirando :)

    Da questo discorso della conoscenza ci si potrebbe però chiedere cosa è conoscenza insita nell individuo e cosa no.
    Quanti sono per esempio i casi[1] di autistici o persone particolari che hanno dimostrato di avere come innate alcune conoscenze matematiche, dal riconoscimento dei numeri primi ad altro, senza però mai aver ricevuto insegnamenti in materia?

    Forse questo è il punto da cui partire: capire quanto le “conoscenze” siano oggetto estraneo e dunque importato in noi dall’ ambiente o invece insite in noi, in ogni epoca (e in ogni pianeta?)

    Sono effettivamente un pò andato in OT, ma d altronde se su questo blog l’ OT fosse proibito Futuro Anteriore non sarebbe mai nato :D

    • @Florian

      Non credo che il tuo commento sia OT. Anzi…

      Mi sa proprio che il “punto” sia proprio questo: da un lato, le modalità di percezione (sensoriale) e di elaborazione logico-mentale che avrà l’archeolog* del futuro anteriore, e dall’altro lato la “conoscenza” residua in comune (tra “noi” oggi e “loro” domani).

      Altri aspetti decisivi sono senz’altro la durabilità dei supporti di memoria della “conoscenza” e la loro intellegibilità.

      Riguardo la durabilità: tralasciando la quota di “conoscenza” legata a manufatti (opere varie e di varia natura in cemento, acciaio, plastica ecc.) e prodotti secondari delle nostre attività (per es. maree di fanghi industriali, scorie radioattive ecc.), mi pare che 2000 anni fa stavano meglio di noi, dato che dubito molto che tra 2000 anni un qualsiasi supporto “elettronico/digitale” sia ancora leggibile…

      Riguardo l’intellegibilità: se anche tra 2000 anni si trovasse ancora un qualche supporto “elettronico/digitale” (diciamo, per es., un CD) sufficientemente integro da poter essere letto (ma mi pare che “reggano” al massimo 50 anni circa… molti dei cdrom, masterizzati massimo 10 anni fa, che ho ha casa sono già “andati”…), mi riesce difficile immaginare l’archeolog* del futuro remoto che lo riesca a leggere e, soprattutto, decodificare… Altro che stele di rosetta!

      In ultimo, circa le “conoscenze” innate, non credo esistano: al più sono una parte invariante (rispetto all’umanità nel complesso) del nostro “hardware” biologico (cerebrale); ricadono quindi nelle modalità di percezione e di elaborazione logico-mentale di cui parlavo prima. Tutto il resto (come “conosciamo” la realtà) è “elaborazione” culturale, ovvero il frutto di dinamiche relazionali/sociali compesse… tanto più la società dell’archeolog* del futuro remoto sarà relazionalmente/culturalmente simile alla nostra (e non glielo auguro), tanto più il suo lavoro di “decodifica” del passato (cioè di noi e delle tracce della nostra “conoscenza”) sarà facile…

  9. Giusto per la precisione – non sia mai che qualcuno dal futuro anteriore legga e capisca il post – “ciascuna ottina/byte” è sbagliato… si dovrebbe dire:
    ciascun otteto/byte :-)

  10. Io mi concentrerei sull’U.N.O. e non sugli U.F.O. Abbiamo scelto un determinato contesto narrativo, proprio per evitare di cadere in immaginari iper-inflazionati dalla cultura popolare. Contatti con alieni, viaggi interstpaziali e temporali sarebbero state metafore altrettanto pregnanti ma vincolate all’interno di un certo frame significante che nel corso degli anni le ha rese “morte”. La fantascienza (o sci-fi) o gli incontri-ravvicinati-del-3°-tipo (e la dietrologia che ne segue) sono dei generi veri e propri. Un pò come dire “Ai piedi della montagna”. Nessuno s’immagina più una montagna coi piedi perchè si è persa la funzione metaforica. Questo non significa che un romanzo di Roth o Asimof non possa dirci nulla sul futuro, ma che quell’atteggiamento a la “futuro anteriore”, non per forza viene attivato leggendo un’opera di sci-fi (specialmente oggi).
    ***
    Evitando gli spoil, la chicca sui racconti è che volutamente hanno un tono cinematografico (come ha notato @punto_fra) per evidenziare la natura *documentarista* degli eventi. Al contrario, attrverso espedienti tipicamente letterari, abbiamo creato degli scenari volutamente ambigui, cioè difficili da incastonare in un immaginario ben preciso (se non alla fine). In che mondo è ambientato l’Antefatto? Si parte con un evidente riferimento buddista ma poi spuntano fuori gli orchi. In che tempo si svolge il secondo racconto? Sembra un periodo antico, eppure si parla di database, hardware e payload. “Disalienare il segno” – diceva Barthes.
    ***
    Riguardo al dilemma sull’oggettività/soggettività della conoscenza, abbiamo tentato di sviluppare l’idea che lo sguardo stesso sia l’oggetto del nostro studio e – aggiungo io – un oggetto di studio non è mai estraneo al soggetto (o supposto tale) che lo studia. Una frase di Tuco, presa letteralmente dai commenti su Giap, è fra le mie preferite: “Esiste un legame profondo tra il senso che una civiltà riesce a darsi e le tracce di sé che coscientemente tramanda”[cit.]. Come dire: se vuoi conoscere gli altri, devi conoscere te stesso.

    • Questo non significa che un romanzo di Roth o Asimof non possa dirci nulla sul futuro, ma che quell’atteggiamento a la “futuro anteriore”, non per forza viene attivato leggendo un’opera di sci-fi (specialmente oggi).

      Certo, non per forza, e specialmente oggi.

      Ma se parliamo delle opere di autori come, per esempio, Philip K. Dick o Aldous Huxley… beh allora ci “attivano” eccome!

    • L’alieno e’ naturalmente un oggetto estremo, praticamente insensato come oggetto reale di analisi.

      Pero’ l’ho citato non certo per lanciare uno scenario apocalittico/di incomunicabilita’, bensi’ per parlare di un altro piccolo tema. Ovvero quello di terreni comuni (che siano “a priori”, o semplicemente comuni a civilta’ diverse, non e’ importante) che sono pero’ ritenuti cosi’ di base da non poter essere comunicazione. Sono solo natura, non cultura.

      Questo anche per rispondere a Florian e simulAcro: credo che parlare di conoscenze universali abbia un senso, almeno fino a un certo grado. Il punto e’ che non credo che queste conoscenze permettano comunicazione: non sono cultura. Non sono il terreno di “mutua informazione” (per dirla con Shannon) su cui un linguaggio puo’ agire per diventare significato.
      Quegli oggetti, in effetti, non hanno un significato, e dunque non possono darlo a nient altro. Sono i costrutti mentali che possono inferirlo su altro.

      • Sulle fallacie interpretative di carattere culturale e genetiche, rimando a questo post sull’ideologia della rete. L’ho pubblicato oggi ma era pronto già ai tempi in cui lavoravamo alla fase 3 di #futuroanteriore. Alcuni concetti, in forma diversa, ricorrono in entrambi i testi.

        Il Web gnostico (2/3): http://goo.gl/sVjv7

    • Aggiungiamoci anche, tirando in ballo gli archeologi del futuro e l’oggettività, che nel caso ipotetico in cui veramente esistano, la loro conoscenza di noi, il loro studio sarà completamente situato: nel peggiore dei casi, gli archeologi e gli storici credono di ricostruire oggettivamente il passato sulla base di quello che loro>l’archeologia>la società pensa di una determinata epoca (il pensiero critico esiste e si sta diffondendo, ma lentamente). L’idea stessa che il passato e i suoi resti (apparentemente comprensibili, o immediatamente incomprensibili) suscitino naturale curiosità è completamente parte del nostro sistema di valori, che non è nemmeno tanto universale. “Il passato è una terra straniera” vuol dire anche che “passato”, “lontano”, “alieno” sono solo gradazioni di discontinuità. Collocare Futuro Anteriore in un Oriente è uno stratagemma letterario? Un omaggio alla culla del “feticismo digitale” in cui è stato partorito?

      Alieni, archeologi. Per trovare i sensi diversi dai nostri non servono gli spazi interplanetari, basta confrontare i nomi dei colori nelle diverse lingue. Ci sono soluzioni apparentemente oggettive a queste fonti di confusione, ma sono in realtà convenzionali. Cosa succede quando le convenzioni si perdono? Gli archeologi le chiam(ava/eran)no “dark age”. Chi nasce al buio può esserne consapevole?

  11. @collettivo Gran Bollito

    Nel complimentarmi per il lavoro che avete fatto, mi permetto di suggerirvi *caldamente* di aggiungere al testo una opportuna specificazione di licenza d’uso (in mancanza della quale, per la legge italiana, è come se fosse “tutti i diritti riservati”), sia per favorirne la “corretta” diffusione che per evitare spiacevoli “sorprese”…

    Una buona idea potrebbe essere usare la licenza CC BY-NC-SA 3.0 Italia (licenza Creative Commons Attribuzione – Non commerciale – Condividi allo stesso modo 3.0 Italia)
    https://creativecommons.org/licenses/by-nc-sa/3.0/it/

    • Si avevamo dato talmente tanto per scontata la cosa, che ci siamo dimenicati di inserirla nell’html. Nel pdf e e-pub la licenza compare.
      ***
      Inoltre molto presto il nostro Ivanhoe, provvederà anche a mettere il file editabile della copertina, la quale è stata realizzata in vettoriale e non in raster proprio per permetterne la massima “malleabilità” in termini di grafica.
      ***
      Le dieci teste pensarono a tutto, ma coordinarle difficile fu. ;-)

    • Beh, tutto Giap è pubblicato sotto licenza CC-BY-NC-SA 3.0, come indicato nella colonna destra, salvo eventuali testi con diversa indicazione di copyright, testi ripresi da altri siti etc. E ogni testo, va da sé, appartiene al suo autore. A rigore, dunque, anche dalla versione html si può evincere che “Futuro anteriore” è un testo che Gran Bollito rilascia sotto CC-BY-NC-SA. Però in effetti è meglio indicarlo in calce al post, per fare le cose precise e chiare.

      • Nell’ultima versione di epub e pdf, la licenza (CC BY-SA 3.0 Italia) è specificata sia a livello di metadati che esplicitamente nel testo.
        Originariamente era riportata persino in copertina, ma poi col cambio di copertina ho dimenticato di esplicitarla altrove. :)

        • Scusate… ma…

          WM1 dice che ““Futuro anteriore” è un testo che Gran Bollito rilascia sotto CC-BY-NC-SA” (cosa che mi pare corretta dato che “tutto Giap è pubblicato sotto licenza CC-BY-NC-SA 3.0“…

          poi ivan_iraci parla di CC BY-SA 3.0 Italia (il Non Commercial è sparito! cosa “strana” rispetto allo Share-Alike..), tant’è che i file epub e pdf hanno la CC BY-SA 3.0 Italia (senza la clausola NC)…

          insomma, non si capisce più molto bene…

          • Quando in lista dystopian si parlò di licenza, si giunse (in maniera molto spiccia) a un CC-BY-SA, il che per un testo che non ha un editore cui rendere conto, né altri tipi di “esigenze” credo sia totalmente sensato. Del resto non credo che ci sia tutto questo rischio “speculazioni” attorno a Futuro Anteriore e se un domani il circolo degli anziani di Vattelapesca dovesse decidere di rielaborare e stampare Futuro Anteriore al fine di rivenderlo a 2 euro a copia per autofinanziarsi la spaghettata del weekend non credo che sia poi un gran problema. Anzi…
            I WM hanno certamente i loro motivi per prediligere la versione NC, e se preferiscono licenziare diversamente la versione web (questo post, commenti inclusi) non credo sia un problema. Non solo, se la prefazione WM1 preferisse metterla in CC-BY-NC-SA possiamo tranquillamente e rapidamente specificare questa licenza per la prefazione.
            Ma mi sembra che si stia dibattendo su tarature di traiettoria di frazioni di grado quando si sta guidando uno schiacciasassi sopra un sassolino posto a mezzo centimetro di distanza…

  12. Il 6 Ottobre a Bologna, il collettivo Gran Bollito sarà ospite della convention “Reti, Comunità e Mediattivismi” con un incontro/dibattito dal titolo “Memorie dal Futuro Anteriore”.

    Tutte le info qui [sito in costruzione]:
    http://www.autistici.org/rcm/programma/#6oct

    ***
    Il nostro intervento “continuerà prima” e “inizierà dopo” il 6 ottobre. Questione di coerenza ;-)

  13. The disappearing web: Information decay is eating away our history.

    http://gigaom.com/2012/09/19/the-disappearing-web-information-decay-is-eating-away-our-history/?utm_source=General+Users&utm_campaign=001b8a4fef-c%3Amed+d%3A09-20&utm_medium=email

    Secondo i calcoli di questo studio in due anni e mezzo scompare dal web un terzo dei contenuti…

  14. Ottimo spunto di @superpu.

    Durante la scrittura di #futuroanteriore avevamo sollevato il problema della “cronologia effimera” dei Social Media (Twitter in primis) ed ecco che su Facebook spuntò il “Diario”, una nuova interfaccia del profilo che permette di visualizzare i contenuti immessi/ricevuti dall’utente a mo di time line. Il lancio del nuovo profilo suscitò scalpori, come l’accorpamento dei msg di chat con quelli privati: un vero e proprio ritorno del rimosso con tanto di trauma e reazioni sintomatiche (molti limitarono l’accesso ai contenuti o fuggirono dal social network).
    ***
    Questa notizia che il 30% dei contenuti sul web decadrà fra 2 anni e mezzo ha quindi anche un pro: dare una seconda chance a tutti quelli che si sono tuffati nei SN, senza “pensare in divenire”. Cosa accadrebbe se il nostro peso sociale (offline) aumentasse e qualcuno decidesse di scartabellare i post/tweet/immagini di quando eravamo pre-adolescenti? Questo accade già adesso con gli ex-settantasettini che fra foto, registraz. radio e articoli, hanno disseminato i media di breadcrumbs personali. Certo, ognuno si assume le proprie responsabilità su ciò che dice e compie, ma per comprendere la “gittata temporale” di un post bisogna prima studiare tiro con l’arco.
    ***
    A me pare che la presunta democratizzazione e neutralità della rete sia una trappola che molti centri di potere utilizzano per invadere la privacy, instillando nella mente altrui l’illusione di emancipare e connettere il proprio pensiero. Per quanto sia sconcertante la prospettiva che fra un decennio non ci sarà traccia della nostra vita-web (st’Apocalisse è più vicina del previsto!) , dall’altra potrebbe salvare la nostra privacy e spingerci un pò più offline, collettivizzarci non solo per sharare contenuti ma per formattarli nei giusti supporti…magari su una tavola di legno ;-)

  15. Ascoltato stamattina alle 6 e rotti su Radio Rai Tre.

    L’Iran ha progetti in corso per creare un internet nazionale, del
    tutto sconnesso dall’Internet mondiale (se non per l’élite), come già
    ha la Corea del Nord. Secondo resoconti non recentissimi (5 mesi fa)
    c’è in programma un search engine e un servizio di e-mail disponibile
    solo registrandosi con le proprie credenziali anagrafiche. Qualche
    info anche sulla Wikipedia in lingua inglese (Internet_censorship_in_Iran).

    Il progetto è supposedly intended per contrastare in modo drastico i
    cyber-attacchi effettuati utilizzando StuxNet e Flame, di cui trovate
    un dettagliato resoconto in questo blog, secondo me errato in alcune delle considerazioni but corretto dal POV tecnico, oltre al solito link alla Wikipedia in lingua inglese (StuxNet).

    Ora, a parte i discorsi su censura, etc. mi sembra interessante la
    possibilità che esista(no) effettivamente internet separati. Va
    totalmente contro l’idea ottimistica di Internet come memoria
    collettiva incancellabile e infinita. Mette a nudo il fatto che le
    regole tecniche (protocolli, compatibilità tra sistemi diversi che
    possono comunicare tra loro, etc) siano in effetti un risultato delle
    regole politiche che il sistema mondo si è trovato ad avere.

    Magari ingrediente utile per la cosa del 6, magari solo una lettura
    interessante per riflettere di censure..

    Ciao
    steko

    • Aggiungerei che fra l’altro tutto questo avviene in uno dei luoghi dove avvengono i più importanti attacchi anche ai tentativi di proteggersi, mi pare che Iran, Cina ed Etiopia siano tra i più importanti sostenitori della lotta a TOR (l’anomizzatore a cipolla). Insomma, sul livello statale c’è tanto. Recentemente avevo anche visto un documentario su al jazeera (questo http://www.aljazeera.com/programmes/faultlines/2012/08/20128674949935186.html – consiglio più che altro l’ultima parte) che mostra invece quanto senza alcun pudore si provveda a salvare e catalogare dati di tutti i tipi, perché per la cia “ogni attività sul web è potenzialmente criminale”.
      Per la questione della rete locale c’è anche da menzionare – d’altra parte – che viene “spinta” anche dal basso, per mettersi in rete in comunità ristrette e non pagarla, non essere controllat* etc.

      • quanto avvenire in questo post! sorry per la ripetizione!

      • Vero che cina, iran e molti altri siano tra i principali nemici di TOR e strumenti simili; direi pero’ che questo e’ soprattutto un ambito di repressione.

        Mi pare invece piu’ significativa da un punto di vista dell’inquadramento politico-sociale delle relazioni umane la scelta di uscire da internet per formare una rete nazionale. Ad esempio la Cina ha un proprio social network, ma il suo modello di “sviluppo” le impone comunque una certa apertura alla rete globale.

        In effetti queste scelte ci ricordano di come l’idea (e l’implementazione) di una rete di interconnessione assoluta ed eterna sia per fortuna fugace. Direi che, aldila’ dell’oggetto specifico della notizia, cioe’ l’Iran, la scelta di uscire da Internet non e’ molto piu’ assurda di quella di formare la suddetta rete. Ed e’ proprio per questo che altri gruppi lavorano sulle “community networks” in tutto il mondo.

        Io ci vedo, astraendo probabilmente un po’ troppo, una sostanziale differenza tra chi professa una fede del tutto analoga a quella ottimistica che da’ vita ad Internet, ma rideclinata in chiave nazionale-statale-religiosa e chi sceglie di sottrarsi dalla globalita’ e, in un certo senso, dal sogno/incubo di una comunicazione perfetta ai posteri, di un futuro anteriore troppo chiaro :)

        [una piccola chicca tecnica: verrebbe da dire che lo stesso mezzo (reti “private”) sia usato sia da regimi repressivi sia da gruppi autonomi che creano comunita’ reali. Non e’ cosi’: senza entrare nel dettaglio, i protocolli che stanno alla base delle reti comunitarie sono il piu’ possibile basati su decentramento, non-gerarchia, costruzione “spontanea” della rete]

    • Lettura lunga ma meritevole, “Foucault In Cyberspace” tratta i problemi della politica e del controllo sulla rete, ottimismi vs pessimismi. Perché, più che nell’obsolescenza dei formati e dei supporti, mi sembra che in quella direzione vada sviscerato il Futuro Anteriore.

  16. Collegandoci agli spunti di Teoria delle Reti presenti su #futuroanteriore, possiamo vedere come ogni macro-rete tenda a creare “reti comunitarie” come dice Scoglio. Le così dette “reti-piccolo-mondo” non hanno bisogno di isolarsi con la macro-rete, ma si sviluppano autonomamente creando “ponti” fra un elemento e l’altro.

    Valga per tutti l’esperimento di Milgram sui “6 gradi di separazione”: una lettera arriva dall’emittente x al destinatario y passando per un massimo di 6 intermediari.
    Lo stesso vale per le reti sociali: una persona x è collegata a una y da un max. di “6 intermediari sociali”. Il punto è che a garantire questa “magia” non sono i legami forti (parentela, amicizia stretta, lavoro ecc.) bensì quelli deboli (il cugino di secondo grado del mio ex-compagno di scuola argentino).

    La crescita “spontanea” delle reti dimaniche come un internet o un ethernet, sono regolate da questi principi che – senza definirli proprio “universali” – statisticamente si presentano con queste caratteristiche. Si formano degli “accumulatori” (di persone come di link) che determinano una “gerarchia decentrata” in una rete supposta-essere spontanea. A volte per spezzare una rete, non bisogna agire sui collegamenti (limitare i contatti fra utenti) bensì colpire gli utenti iperconnessi (nel caso della rete del virsu AIDS, è meglio sensibilizzare all’uso del preservativo certe persone, piuttosto che limitare i contatti sessuali tout court).

    Io credo che aldilà dei protocolli, si troverà anche il modo di gettare “ponti” fra una rete chiusa e l’altra, così come la rete neuronale del sistema limbico ha gettato legami sinaptici con il sistema centrale. Non solo. A mio avviso l’eventuale uscita dell’Iran da internet, genererà un flusso alternativo di scambi sociali offline che ridefinirà nuovamente la rete sociale/informativa globale. In realtà, secondo la teoria delle reti, non esistono reti *veramente* isolate dalle altre.

  17. Alla base del funzionamento di tutta la Rete, sia essa grande, piccola, diffusa o meno c’è, lo sappiamo bene, un uso mostruoso di energia per far funzionare tutto. Già nella prima discussione su “feticismo digitale” si pose questo problema: noi diamo per scontato che ci sarà sempre energia, per tutti e per tutto. Segnalo questo link che, se non da naturalmente soluzioni (d’altra parte, chi puo’ darne ora?) almeno pone la questione dell’inquinamento e del superamento della logica delle fonti fossili.

    http://www.corriere.it/scienze_e_tecnologie/12_settembre_25/internet-ecologia-gaggi_4f619b02-06db-11e2-8daa-75c6fff9e45c.shtml

  18. Un articolo interessante su Repubblica di ieri:
    – Rodotà, Cosa resta della proprietà nel mondo digitale http://temi.repubblica.it/micromega-online/cosa-resta-della-proprieta-nel-mondo-digitale/

  19. Davvero interessante il pomeriggio di sabato scorso a Reti Comunità Mediattivismi, presso il circolo libertario “Berneri” di Bologna: http://www.autistici.org/rcm/

    C’era il collettivo Ippolita, che ha presentato “Nell’acquario di Facebook”: http://www.ippolita.net/nellacquario-di-facebook

    C’erano i compagni di Struggles in Italy, un altro progetto che ha avuto Giap come culla: http://strugglesinitaly.wordpress.com/

    E c’eravamo noi di questo fantomatico “collettivo Gran Bollito” a parlare di “Futuro Anteriore” con tanto di professionalissime slide.

    Non credevo che fosse possibile tenere una quarantina buona di persone per ore e ore a discutere così appassionatamente di Internet, di social network, di rappresentazione delle lotte in rete, di conservazione della memoria digitale. Un possibile filo conduttore l’ha proposto Wu Ming 1 nel dibattito: guardare da fuori il nostro “stare dentro” i mezzi di interazione digitale di massa, guardare da fuori (e quindi raccontarlo in inglese) il nostro “stare dentro” le lotte italiane, guardare da fuori (cioè dal futuro anteriore) il nostro “stare dentro” questo tempo. Questa è una terapia (affine alla narrativa, al giornalismo, all’inchiesta, allo studio) al presente dilatato e ideologizzato, al provincialismo globalizzato, alla timeline preformattata che ci lasciamo costruire addosso.

    • Segnalo. I/le compagni/e di Struggles in Italy hanno fatto uscire un appello per recuperare dopo l’impressionante calo di partecipazione.
      Vi chiederei di farlo girare il più possibile. Esiste anche la versione inglese e francese (per averla scrivete a: strugglesinitaly[@]gmail[.]com).

      ##
      Care compagne e cari compagni di Struggles In Italy,

      il 15 ottobre scorso, il nostro progetto ha compiuto un anno.
      L’anniversario in sé significa poco se non accompagnato da una seria riflessione su questo strumento e le sue (notevoli) potenzialità.
      In un anno abbiamo moltiplicato la nostra esposizione online, i contatti giornalieri, i feedback, i rimbalzi. Senza esagerare, ci siamo scavati una piccola nicchia dove il blog è ri-conosciuto e apprezzato.
      In un anno, però, abbiamo subìto un notevole calo di partecipazione. Questo fatto, non riconducibile a motivazioni politiche o a problemi interni, ci ha portato a scrivervi e chiedervi di far girare più possibile quest’appello.

      Da qualche mese questa riflessione è all’ordine del giorno. Abbiamo individuato alcuni limiti e avanzato alcune proposte per superarli. Ma senza un gruppo abbastanza largo e capace di andare avanti anche senza un riscontro politico e/o personale immediato, è difficile ripartire. Bisogna evitare, da un lato, che il progetto entri in crisi ad ogni calo di partecipazione e far sì, dall’altro, che ci sia un continuo ricambio interno. Fra tanti problemi, un fatto estremamente positivo: il gruppo si è internazionalizzato, guadagnando l’aiuto di alcuni/e madrelingua inglese.

      A livello tecnico, il calo ci ha portato a razionalizzare le energie. Il lavoro e le discussioni vengono ancora organizzati tramite la piattaforma “We” di Riseup.net, dove abbiamo scritto anche alcune guide per rendere più agile la partecipazione e l’ingresso di nuovi collaboratori. Abbiamo inoltre iniziato a fare assemblee mensili via Skype (ma stiamo cercando un sistema alternativo).
      A supporto di questi strumenti, rimane comunque la mailing list, che abbiamo spostato da Google ad Autistici/Inventati. Ci si iscrive in un minuto su questa pagina oppure scrivendo a strugglesinitaly[@]gmail[.]com.

      C’è bisogno di SCRITTORI/TRICI, TRADUTTORI/TRICI (NON SOLO dall’inglese!) e MEDIATTIVISTI/E con le competenze più varie. Ci sono video da sottotitolare in lingua, traduzioni da controllare, pagine da tradurre e un rete di contatti da creare e mantenere partecipando ad eventi e iniziative di vario genere.
      C’è bisogno di spargere la voce, coinvolgere chi coltiva una genuina passione per un’informazione dal basso. Sforzarsi di raccontare, a chi di Italia sa poco o niente, le lotte che ogni giorno attraversano questo territorio. Sforzarsi di costruire ponti e reti internazionali con chi conduce le nostre stesse lotte nel resto del mondo.

      È un lavoro lungo e impegnativo, ma siamo sicuri/e che è pieno di gente pronta a raccogliere la sfida.
      A un anno di distanza.
      Di nuovo!

      Il collettivo Struggles In Italy.
      Twitter: @strugglesitaly

  20. Inside Google’s Datacenter. Grazie @jumpinshark per la twittata ;-)

    http://www.wired.com/wiredenterprise/2012/10/ff-inside-google-data-center/all/

  21. Iniziativa interessante e figlia dei tempi, ma con un forte punto critico:

    “altri come Pratellesi del Festival dei Popoli sono molto impressionati dall’impatto negativo in termini economici e di agibilità politica che a causa dell’avvento di normative senza alcun fondamento culturale condivisibile come il diritto all’oblio o la trasformazione di redazioni per periodici su carta in redazioni per edizioni online.”

    Bollare il diritto all’oblio e la digitalizzazione dei quotidiani come “iniziative senza fondamento culturale” mi pare fuorviante.

    Il diritto all’oblio è necessario per rendere la memoria (digitale e non) delle persone *autonoma* dai grandi accumulatori di potere che ne praticano lo storage su larga scala a fini di profitto. Il quotidiano che diventa web journal è un tipico fenomeno di Rimediazione e guardare ai vecchi media in maniera “rigida” ci porta indietro anni luce sull’analisi della spettatorialità e dei paradigmi di trasmissione/condivisione del sapere attraverso i media.

    Qui, un breve articolo sul diritto all’oblio di Wired:
    http://daily.wired.it/news/internet/2012/01/24/diritto-all-oblio-privacy-europa-19514.html

    See ya!

  22. Da lunedi 10 a mercoledì 12 Dic. si terrà a Roma il convegno “Cinema & Rete”. Fra i temi:”Memoria al futuro”. Dal programma, si prospettano discussioni su molti topic affrontati in Futuro Anteriore.

    Qui trovate il programma dettagliato:
    http://www.uniroma3.it/news2.php?news=2757&p=1&media=print