Passione e delirio a #Macao – di Wu Ming 2

Macao, 澳门, Repubblica Popolare Cinese

Non mi capita spesso di andare a Milano: negli ultimi due anni un po’ più spesso, per via di un corso di drammaturgia che tengo alla NABA. In febbraio le lezioni teoriche e a maggio tre giorni intensivi, otto ore al giorno, di laboratorio pratico. L’anno scorso, durante la tre giorni, Giuliano Pisapia ha vinto le elezioni e mi sono fatto travolgere dai festeggiamenti. Quest’anno, lo sgombero di Macao. I milanesi mi spieghino: è una coincidenza, oppure in quella città lì succede qualcosa di grosso ogni settimana?

Macao, v^^, Milano

Piccoli retroscena di un pomeriggio di passione: venerdì scorso, uno degli studenti mi manda una mail. “Prof, che ne dice se dirottiamo la lezione a Macao?”. Va bene, rispondo, e mi vedo recapitare un modulo molto professionale, dove indicare di cosa parlerò e con quali obiettivi, per poi spedirlo all’indirizzo di Macao Formazione. Urca, penso, questi fanno sul serio. Ma siccome non ho un’idea precisa di che lezione fare – non posso proporre il laboratorio sui testi, non fregherebbe a nessuno – chiedo che l’argomento lo si costruisca insieme, provo a capire cosa interessa e cosa no, ci metto dentro, come proposta, anche i temi del nuovo romanzo in uscita. A quel punto, silenzio telematico. Dico: ok, questi fanno sul serio ma c’hanno di sicuro le loro gatte da pelare. Improvviserò, non c’è problema. Quindi lunedì sera, dopo il primo giorno di laboratorio, vado alla Torre Galfa, e per la prima volta vedo il grattacielo di Macao, 30 piani, tutto illuminato di blu. Un dito medio color cobalto alzato in mezzo alla città, dritto in faccia alla sede regionale. Dentro, tra cavi elettrici volanti e muri scrostati, un’energia di corpi, voci e pensieri. Slogan, prese di posizione, racconti e documenti coprono le pareti e le fanno parlare. Mi confermano la lezione, anche se temono lo sgombero. Va bene, dico, e di che parliamo? “Abbiamo discusso a lungo, e alla fine abbiamo deciso che può parlarci del nuovo romanzo, che non è farsi pubblicità”. Penso: cavolo, questi fanno sul serio, hanno chiamato a suonare pure gli Afterhours e i Subsonica, e chissà se hanno discusso a lungo, prima di farli salire sul palco. Cantare il proprio repertorio non sarà farsi pubblicità? Magari hanno imposto di fare solo cover di vecchi traditional. La mula de Parenzo rifatta da Manuel Agnelli, sai che figata?

Arriva martedì mattina e arriva pure un sms: “Macao è tornato alla Cina”. Però, mi dicono, la lezione aperta si fa lo stesso, ancora più aperta, in mezzo alla strada. Va bene, dico, parleremo del “divenire profughi” di tutti noi, e di come raccontare questo divenire.
Nel frattempo, ricevo una mail da un amico milanese: “Boh, almeno potevi avvisarmi che presentavate Timira a Macao… E’ brutto doverlo leggere dal twitter di Einaudi…” Provo a chiarire l’equivoco e decido che la parola “Timira” non uscirà più dalla mia bocca per almeno 24 ore.
Alle tre del pomeriggio sono in piazza Macao, con il mio grappolo di studenti. La lezione si tiene in un’aula senza pareti, delimitata con strisce di scotch sui sampietrini. Le aule sono tre e in quelle attigue sono già in corso altre lezioni. Cartelli scritti a mano indicano chi parla e di che cosa. Ci sediamo per terra, si comincia. Siamo una quindicina di persone, non di più, ma pian piano se ne aggiungono altre, in piedi e a cerchi concentrici, e dopo un’oretta mi propongono di spostarmi dove c’è l’impianto audio, per parlare con il microfono, visto che molta gente vorrebbe partecipare ma non sente quel che si dice.
Da bravi profughi, alziamo le chiappe e migriamo compatti verso una nuova terra.
Si riprende, domando scusa a chi non vorrebbe ascoltare: non ho scelto io di imporre la mia voce con l’amplificazione. Si continua. Domande, risposte, altre domande: lo sforzo di costruire una narrazione collettiva; il bisogno di darsi tempo; la trappola della mediazione al ribasso, del “minimo comune denominatore” come punto di vista unificante.
Un tizio mi si avvicina e mi domanda se può fare un intervento di mezz’ora sulle banche e la moneta. Gli dico di rivolgersi a qualcun altro, io sono soltanto un ospite, mi hanno chiesto di parlare dalle 15 alle 18 e resto fedele alla consegna.
Il tizio mi ripete la proposta altre due volte, ma alla fine desiste.
Poi, mentre sto per rispondere a una domanda, arrivano in corteo gli operai di una fabbrica occupata, la Jabil di Cassina de’ Pecchi. Interrompiamo il dibattito e ascoltiamo il racconto della loro battaglia. Quindi il microfono, di mano in mano, giunge a un signore con i capelli bianchi e il signore ci spiega di essere pensionato, dopo quarant’anni di lavoro come artigiano. “La loro storia – dice indicando gli operai – l’ho capita bene. Invece – dice indicando me – le storie di cui parli tu non le ho capite. Ma tu lavori? Ma voi – dice rivolto a tutti quanti – Voi, lavorate?”. Si prende qualche applauso, qualcuno urla che “Ognuno ha la sua lotta” e io capisco che la lezione è finita. Però prima di finirla vorrei ribattere, vorrei domandare a quel signore se devo per caso spedirgli il curriculum, prima di poter parlare, vorrei provare a spiegargli quel che non ha capito, come si fa appunto a lezione, ma il tizio delle banche si avventa sul microfono, prende una sedia e parte con la sua mezz’ora di economia in pillole. Sento puzza di “la crisi l’hanno causata le banche” e forse pure di signoraggio, così mi allontano in buon ordine, in dissolvenza.
Uno degli occupanti viene a ringraziarmi, si scusa per il finale, dice che una domanda su Timira me l’avrebbe fatta volentieri. “Strano che uno scrittore, il giorno dell’uscita di un suo libro, venga a sedersi per strada, davanti a un centinaio di persone, e non faccia nemmeno un cenno al romanzo che ha scritto”. Chissà, forse ha ragione. Mia suocera me lo dice sempre, che dovrei andare da Fazio.
Lascio “Piazza Macao” – per poi ritornarci la sera, in mezzo a migliaia di persone – con la misura precisa di quanto sia difficile gestire un’assemblea permanente, un collettivo aperto e appassionato. Quanta pazienza, tempo, dedizione e cura siano necessari per confrontarsi, decidere, darsi del noi e agire insieme.
Perché siamo tutti profughi, ma siamo anche tutti sbirri di frontiera.
Siamo indiani nati nelle riserve e ormai nelle praterie, tra i bisonti e l’orizzonte spalancato, abbiamo bisogno di ritrovare l’orientamento.

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30 commenti su “Passione e delirio a #Macao – di Wu Ming 2

  1. Leggere il resoconto di WM2 è sconfortante, ma è una narrazione sana quindi lo sconforto passa e rimangono le domande.

    Perché darsi del “noi” è sempre un’impresa così difficile?
    Ha a che vedere con l’estrema facilità nel declinare un “loro”?

    La strategia discorsiva che trova i propri elementi strutturanti nel loro (la casta, le banche) non è già politicamente esausta?

    Come produrre narrazioni differenti senza fare negazionismo?

    Perché nel mio paese (Colle di val d’Elsa) sono tutti di sinistra ma col cazzo che gli va giù una moschea alle porte del paese?

    • Se il resoconto è sconfortante, allora non sono stato un bravo narratore.
      Speravo di restituire la passione, l’entusiasmo e la voglia di rischiare, senza però nascondere che i rischi ci sono, che l’esperienza di mettere in rete tanti soggetti per fare cultura alternativa è difficile, caotica e richiede una lucidità che gli sgomberi, le scadenze, le programmazioni fitte mettono sempre in crisi.
      Gli stessi occupanti di Macao mi sono sembrati molto consapevoli di questo, per quel poco che ho potuto conoscerli. Per nulla autocelebrativi, e questo mi pare un ottimo punto di partenza. Le domande su come produrre narrazioni collettive sono la testimonianza di una presa di coscienza, di una fatica vissuta, anche solo in una breve, intensissima settimana.
      Darsi del “noi” – o darsi dell’io, come ai tempi di Blissett – può essere molto facile, se lo si fa in termini negativi. Il difficile sta nel trasformare quel “noi” da affermazione vuota e autoreferenziale in narrazione sostanziosa e produttiva: possiamo dire “noi” perché raccontiamo questo e quest’altro, e lo facciamo con un punto di vista preciso, riconoscibile, non omologato.
      C’è un libricino molto raro, che ho la fortuna di possedere: si chiama “La nascita del noi attraverso la scrittura” e illustra la pratica della scrittura collettiva secondo il metodo di don Milani a Barbiana. Il punto di partenza, non banale, è la convinzione di aver qualcosa da dire, di doverlo dire insieme, e di avere anche un preciso interlocutore, qualcuno a cui rivolgersi. Poi è necessario darsi tempo: e invece oggi la comunicazione “social” è tutta scandita dal batti e ribatti, se uno ti fa una domanda, prendersi il tempo di rispondere è già un’ammissione di debolezza, una mezza sconfitta. “L’ho lasciato senza parole”, diciamo di uno che non ha trovato subito un argomento per ribattere, e ci proviamo gusto.
      Rispetto alla penultima domanda, quella sul negazionismo, mi prendo tempo e ti domando, quando puoi, con calma, il tempo di chiarirmela meglio.

      • Come avrai visto, lo sconforto è seguito da un’avversativa. Ed è uno sconforto che nulla toglie alla passione e alla politicità dell’evento.
        Il mio sconforto nasce piuttosto da ciò che definisci “minimo comune denominatore” come punto di vista unificante (al ribasso); punto di vista che si declina nella formula del “Ma tu lavori?”

        Ovvero: Bossi è morto, lunga vita a Bossi.

        Il processo di crisi (sociale, culturale, economica) all’interno del quale ci muoviamo si nutre di cause facilmente accessibili (la casta, le banche, gli immigrati). E’ il sogno di purgare la comunità dagli elementi impuri che la corrompono, dai traditori che la sovvertono. E’ un richiamo oscuro che riunisce e che mobilita.

        E arriviamo alla questione del negazionismo. Non si può negare lo scempio operato da chi sta in alto, ma questa narrazione sembra essere già stata ipotecata da un giornale cripto-fascista come Il Fatto, che delle cause accessibili è il portavoce.
        A tal proposito leggere un recente articolo su Matteo Garrone che si avvale della stessa strategia discorsiva del “Ma tu lavori?”
        http://www.ilfattoquotidiano.it/2012/05/16/garrone-gomorra/231835/

        Si possono trovare altre modalità narrative, ma è assai difficile segnare la differenza.

        Infine, mi scuso se sono venuto a predicare in casa del convertito, ma se non ne scrivo qui, dove posso farlo?

        • “Convertiti” non lo si è mai del tutto, e a dispetto di quanto si dice, predicare ai (cosiddetti, sedicenti o sepensanti) convertiti è molto utile, a patto di trovare sempre nuove parole. Perché una frase vera diventa una vuota bugia, se la ripeti mille volte uguale a sé stessa. Biosgna imparare a dirsi la verità, ma con vocaboli sempre diversi.
          Non esiste solo il sogno di purificare la comunità dagli elementi estranei, esiste anche, molto forte e nascosto, il miraggio di esseri puri solo in virtù di una scelta. Ecco perché dico che siamo tutti (anche) sbirri di frontiera: non perché le frontiere siano sempre un errore (l’uscio di CasaPound è una frontiera che non intendo varcare), ma perché dobbiamo combattere il nostro “flic dans la tête”, il poliziotto che abbiamo dentro e che traccia confini in base a pregiudizi, supposte differenze, razza, classe, identità. Ieri, al programma di Fazio & Saviano, Luciana Littizzetto se la prendeva contro quelli che in TV non ammettono i propri difetti. In particolare Lapo Elkann, colpevole di aver confessato, come vizio, quello di mangiarsi le unghie. “Ma allora scusa – fa LL – quando ti vestivi da Maria Stuarda cos’era, una virtù?” E tutti giù a ridere, ad applaudire, a farsi ballare in testa un sabba di sbirri omofobi e perbenisti, salvo poi essere ovviamente contro l’omofobia, per la libertà e via discorrendo. Saremo anche cablati per l’empatia, pieni zeppi di neuroni specchio, ma gli sbirri nella testa sono sempre pronti a caricare…

        • «Perché una frase vera diventa una vuota bugia, se la ripeti mille volte uguale a sé stessa. Bisogna imparare a dirsi la verità, ma con vocaboli sempre diversi». Mi sono fermato su questa frase che mi lanciava occhiolini. Dove l’avevo già letta? C’ho pensato un po’ e poi sono andato a ripescare l’ultima parte di questo post: http://www.wumingfoundation.com/giap/?p=4288
          con l’intervista a Wu Ming 1 sull’etica del mito e le narrazioni di trasformazione storica, dove dice che «raccontare mille storie alternative significa anche trovare mille alternative dentro una storia per troppo tempo raccontata in un modo solo». Se si aggiunge che proprio in questo periodo sto leggendo Senza Perdere La Tenerezza di Taibo II beh il gioco è fatto. Le tue parole valgono anche per la foto di Korda e forse anche per lo stesso appellativo “Che”.

      • Una frase del genere al termine del resoconto: «Perché siamo tutti profughi, ma siamo anche tutti sbirri di frontiera» non lascia indifferenti e difficilmente non spalanca infissi all’inquietudine (positiva). Perché sono parole azzeccate che bucano dentro. Senza via d’uscita apparente, costringono a farsi delle domande, a ripensarsi. In questo senso forse dimitri si riferiva più ad un travaglio interiore che non a uno “sconforto” nel significato etimologico del termine: di perdita di forze e coraggio, e dunque di rassegnazione.

        Nella tua narrazione credo rimanga predominante la componente di “allerta” che fa capo alla congenita complessità del fare rete. Ciò non toglie che il messaggio passa chiaro: il rischio è necessario se ci vogliamo salvare il culo. E seppur comporta fatica è bello.

        • come non detto dimitri mi ha anticipato, non avevo ancora visto la sua risposta prima del mio commento

        • Grazie per le parole che hai trovato, io stesso non avrei saputo spiegarlo meglio. Infatti ho scelto di raccontarlo. E aggiungo che il mio è il racconto di un ignorante, di uno che a Macao c’è stato in tutto cinque ore e non pretende affatto di aver colto chissaché, giusto qualche indizio, segnali, il clima di un pomeriggio memorabile. Non a caso il titolo del post richiama il “gonzo journalism” di H. Thompson, basato sul resoconto di un’esperienza personale, immediata, priva di approfondimento.

        • Grazie alle tue narrazioni.

  2. Tradizionalismo, caro Dimitri.

    Riguardo allo sconforto del resoconto, vi chiederei se non è lecito che ci siano piani diversi della stessa lotta…in fondo la maturità di una società di massa sta nel superare le diversità personali in nome di qualcosa di unitario. ma non si può pretendere che tutti la pensiamo ugualmente e abbiamo bene a mente e a cuore “l’ideale” per cui ci battiamo…la nostra società di massa è senescente, per questo non le resta che un individualismo egoistico e sordo

    saluti

    • Io davvero sono tutt’altro che sconfortato: solo, come direbbe Mister Wolf, non è mai il momento per la reciproca fellatio. Lungi da me pretendere che tutti la pensino nello stesso modo, ma l’episodio del tizio che dice “Voi lavorate?”, mi pare significativo. In un momento di solidarietà tra due soggetti in lotta – i licenziati di una fabbrica e i lavoratori dell’arte – è bastata quella domanda per far emergere, da un lato, l’applauso di chi è sempre pronto a mandarti a zappare, dall’altro, l’urlo di chi s’incazza e grida che “ognuno ha la sua lotta”, quando invece la lotta è una sola, per quanto complessa, e raccontarla come tale sarebbe il punto da cui partire.

      • sì, lei ha pienamente ragione; è che quotidianamente penso a come fare a rendere la speranza e la lotta collettiva e unitaria, ma quello che vedo intorno a me è una società svuotata di ogni velleità di innalzamento e rinascita culturale e, lavorativamente parlando, dedita ad un primordiale e per molti versi giustificabile “si salvi chi può”…

      • Quello di cui si discuteva su Giap, ai tempi dell’hashsquatting “nervi #saldi” e ancora prima alla comparsa dei book block durante le manifestazioni dell’Onda , era di creare costantemente nuove narrazioni di lotta.
        Come allora, anche oggi per #macao, oltre al difficile compito di creare un immaginario collettivo in cui tutti possano riconoscersi ed unire le proprie “esperienze”, sarà a mio avviso il tempo a giocare il ruolo fondamentale.
        Per ora mi sembra che piazza #macao sia conscia del rischio che la “scadenza” porta a qualsiasi forma di protesta, e sia quindi determinata a “prendersi” tutto il tempo che le serve :)

        • ma ha senso sforzarsi di narrare una lotta unitaria quando chi lotta o dovrebbe farlo non avverte l’unitarietà della cosa?
          non si dovrebbe partire dalle pratiche (vivere) prima di preoccuparsi delle narrazioni?
          scusate se sto divagando o riportando in auge un argomento già trattato..

        • Ha senso?
          Assolutamente si!
          Ti porto anche un dato empirico a suffragio della mia affermazione: il movimento #notav. Contrariamente alla sua percezione mediatica (compare quando fa notizia) il movimento esiste dal 1995, se fosse stato solo un caso di sindrome NIMBY, sarebbe sparito molto tempo fa. Invece il #notav ha resistito ed è cresciuto, proprio perché le sue dinamiche ed i suoi meccanismi regolatori si sono allargati oltre il concetto “root” di difesa del territorio.
          Si è creato un frame nel quale sono convogliati diversi “ideali” di protesta; inoltre l'”orologio interno” che scandisce il tempo del movimento, non si basa su una “scadenza” ma su una resistenza, che come dice il motto stesso “a sarà dura”, (magnificamente scevro di ogni riferimento temporale) implica una durata senza limiti.
          Questo mi auguro per #macao riuscire ad andare oltre Milano e connettere le varie realtà dei superprecari lavoratori dell’arte (senza le virgolette), ma per farlo serve una narrazione forte condivisibile da tutti non solo da coloro che in primis hanno liberato (e non “okkupato”!!!) la torre G.
          Riguardo alle pratiche anzichè le narrazioni ti consiglio questa http://youtu.be/GfFkfEM4nYc intervista a Dario Fo (pioniere di teatri occupati e forma artistiche di protesta) fatta a #macao durante uno dei primi giorni del progetto, risponde meglio di come potrei fare, pensare o scrivere io.
          Vorrei però ricordarti la lettera di commiato dalla vita scritta da Salgari, nella quale la celebre frase “spezzo la penna” sanciva la connessione inestricabile tra vivere e scrivere. Non può essere dunque possibile anche tra il vivere ed il narrare?

  3. Un passo al centro della Storia. Si ma un passo buffo perché questo passo lo si è fatto da fermi, seduti e non “immobili” nel mezzo di una strada (subito ribattezzata piazza). Forse è stata una allucinazione tutta mia favorita dalla mia scarsa partecipazione storica alla ribellione. Volevo visitare Macao proprio quel giorno, ma quando la mattina ho saputo dello sgombero, ho provato un impulso diverso, non un indignazione, come hai raccontato, ma una incazzatura (perché hai usato arrabbiato al posto di incazzato?). Sarei andato lo stesso, ma quel fatto ha mutato il sentimento. Ora “dovevo” andare. Essere parte di quel luogo (già perché non essendoci più il palazzo, il luogo lo facevano le persone) anche se solo per poche ore mi ha fatto sentire avvenimento, cronaca in evoluzione, evento.
    Abbiamo narrato la storia prima della sua verità giuridica, abbiamo raccontato la storia vera, perché era quella che si faceva lì.
    Conosco poco voi Wu Ming e questa beata ignoranza mi ha anche fatto fare una gaffe: di quella prima aula senza pareti avevo ritagliato e pubblicato un’immagine, ora l’ho tolta dalla rete ma la terrò a cuore.
    Grazie.

    • Figurati, nessuna gaffe: sono io che ho sbloccato il commento senza accorgermi del link. Tra l’altro, ti ringrazio della foto, la terrò a cuore anch’io, con quel suo filtro Seventies che la fa sembrare il reperto di un altro tempo. Non abbiamo nulla contro i fotografi e le loro inquadrature, solo non ci piace apparire in pubblico in versione mediata e preferiamo farlo solo dal vivo.

  4. Se Macao ha trascinato in strada persone che, come @micdabe, hanno una ‘scarsa partecipazione storica alla ribellione’ , gli ha fatto pensare che ‘Ora “dovevo” andare’, se aè arrivata a far dire ‘mi ha fatto sentire avvenimento’ credo che abbia fatto molto.
    Forse lo sconforto è nel nostro sguardo, perchè se stiamo guardando a Macao (o a qualunque altra realtà) come ad un risultato lo sconforto ci sta tutto. Se lo guardiamo come un campo base invece credo possa infondere un certo ottimismo.

  5. Questo intervento di WM2 secondo me è una sintesi ottima della situazione di movimento attuale e va contestualizzato in un’ottica molto più ampia di quella relativa alla singola esperienza Macao.

    In questi primi anni degli anni dieci stanno emergendo nuove forme di movimento (e quindi nuove forme di occupazioni) che hanno tutte come denominatore comune il concetto di cognitariato. Teatro Valle, Teatro Coppola, Teatro Lido, Macao: il Quinto Stato.

    Questo cognitariato, questo Quinto Stato, ha dei limiti palesi: il tizio che chiedeva “Voi lavorate?” li esprime in maniera brutale ma efficace. Per tradurlo in maniera meno brutale mi approprio del dubbio che Giso Amendola pose a Roberto Ciccarelli e Peppe Allegri quando mercoledì scorso vennero a presentare da noi “La furia dei cervelli”: le istanze del quinto stato sono solo le istanze di questo cognitariato, le aspirazioni e rivendicazioni legittime di questa frangia di lavoratori indipendenti ad essere riconosciuti, oppure possono essere allargate e adattate per una ridefinizione generale delle dinamiche di tutto il mondo del lavoro?
    A me sembra che molti dei lavoratori dell’arte e della conoscenza protagonisti delle occupazioni recenti (Macao compreso) questa cosa debbano ancora chiarirsela.

    D’altro canto, il limite di queste nuove forme di movimento però è anche un enorme punto di forza: la forte componente artistica gli permette di avere una capacità di narrazione collettiva, d’impatto e di presa che i vecchi movimenti non avevano più da circa dieci anni. Del resto, che crea più aggregazione di massa uno spettacolo teatrale che un’assemblea di due ore sulla nazionalizzazione delle banche è una cosa logica, palese e di immediata comprensione e non biasimo per niente @micdabe se ha deciso solo adesso di avvicinarsi a queste esperienze (sennò diventava come me che ho venticinque anni, è da quando ne avevo sedici che faccio l’ottanta per cento delle volte solo assemblee politiche di due ore e seminari di economia marxista e sono quasi al limite della sanità mentale).

    La conclusione di questo discorso secondo me, può e deve essere solo che sia le vecchie frange di movimento che queste neonate accettino i propri rispettivi limiti e capiscano che possono trarre linfa l’una dall’altra, che si riconoscano reciprocamente e inizino a costruire percorsi collettivi: se riusciamo a fare questo (e mi sembra che un po’ di segnali in questo senso, da tutte e due le parti, per fortuna ci siano) può nascere una ricomposizione non solo di movimento ma proprio generale. E mai come in questo momento storico, serve

  6. Mi pare la rappresentazione reale più significativa di quanto ho letto, sul piano teorico, in Moltitudine. Forse il punto non è trovare il minimo comune denominatore che superi le differenze. Questo in definitiva si può presumere immanente nell’esigenza che ha spinto frammenti così distanti a convergere a Macao. La vera sfida, ancora tutta da giocare, sta nel verificare se da questo coacervo magmatico non indifferenziato saprà nascere quel potere costituente che fonda la teoria moltitudinaria. Superare le differenze individuali non necessariamente dovrebbe implicare l’omogeneizzazione, purché la forza centripeta non sia prevalente.

  7. Ode al riuscire a fare quello che pensi sia giusto fare, senza tante barriere mentali.
    Buttarsi liberamente fra la moltitudine e cogliere con un sorriso anche ciò che non è uguale al tuo, metodo o pensiero.
    Che bello sentire che uno con la metà dei tuoi anni, seduto per terra vicino a te, sta condividendo la stessa durezza dell’asfalto sotto il culo. Come quello che un pò più in la di anni ne ha il doppio di te.
    Il minimo comune denominatore?
    Un istanza ribelle che ci porta a stare al centro di una strada a parlare per ore di bene comune, laboratorio di estirpazione di corpo e menti alla dittatura mediatica e finanziaria.
    Oppure anche solo essere qui, e mettersi in gioco.
    invece di stare a guardare un programma obsoleto che parla di rabbia e rivoluzione virtuale.
    A molti non basta?
    Sono proprio fortunata allora… a me si ;)
    [la mia rivoluzione è quella che sperimento tutti i giorni.sbagliando.rischiando.appassionandomi.]
    [sento il bisogno di semplificare •pardon• ma mi sembra che quello che manca è un po’ di istinto primordiale]

  8. Forse la mia è solo pignoleria, ma forse no.
    In matematica ‘minimo comun denominatore’ è un concetto che non si usa (il minimo comun denominatore di qualunque gruppo di numeri è comunque 1, quindi è poco interessante).
    Si usano invece il massimo comun denominatore e il minimo comune multiplo, che, maltradotti dalla matematica all’italiano, sono rispettivamente il più grande dei numeri che contiene solo gli elementi che stanno dentro ad ognuno dei numeri dati e il più piccolo dei numeri che contiene tutti gli elementi che stanno dentro ad almeno uno dei numeri dati.
    Quello di cui stiamo parlando quindi mi sembra sia il minimo comune multiplo (che, nonostante sia ‘minimo’ è più grande di ognuno dei numeri dati, mentre l’altro, nonostante sia ‘massimo’ è più piccolo di ognuno dei numeri dati).
    Linguisticamente il fatto che si cerchi un multiplo mi sembra si accordi meglio con il concetto di ‘mediazione al rialzo’, e anche il procedimento di calcolo del mcm, che è un mettere insieme le particolarità di ognuno, e non solo le cose comuni a tutti, mi sembra una descrizione più adeguata.

    • Hai ragione, in matematica non si cerca il minimo comune denominatore, é scontato. Tra persone, invece, si pensa che trovarlo sia già un risultato ( si tendono ad escludere soluzioni come: abbiamo tutti due gambe, un cervello e un naso). Noi pensiamo che sia una ricerca da evitare: tanto quella del minimo, quanto quella del massimo comune denominatore. Entrambe tendono ad evidenziare un nucleo banale, piatto, che non scalda il cuore a nessuno. Preferiamo cercare il massimo comune multiplo: anche questo un concetto non-matematico (dato un multiplo comune tra due numeri, puoi sempre trovarne uno più grande), ma nella pratica di un collettivo il senso è: trovare un’idea comune, che superi quelle di tutte e che lo faccia con il massimo possibile di tensione, di sfida, di eccentricità. Diciamo: la più creativa tra le mediazioni al rialzo.

    • minimo comune denominatore e’ ok. e’ il minimo comune multiplo dei denominatori.

      date k frazioni, per confrontarle bisogna scriverle in forma equivalente, in modo che abbiano tutte lo stesso denominatore.

      in realta’ la ricerca del minimo comune denominatore e’ un po’ laboriosa. il modo piu’ rapido per trovare un denominatore comune e’ quello di moltiplicare tra loro tutti i denominatori.

      (scusate l’ o.t.)

      (secondo me la contrapposizione “compromesso al ribasso” vs “compromesso al rialzo” esprime nel modo migliore cio’ di cui si sta parlando)

      compromesso al ribasso: si prende in considerazione solo cio’ che e’ comune a tutti.

      compromesso al rialzo: ognuno mette cio’ che ha in comune con tutti

      • Mi sa che per evidenziare la differenza tra le due definizioni ci vuole una virgola nella seconda: “ognuno mette ciò che ha, in comune con tutti” (altrimenti: “ognuno mette ciò che ha in comune con tutti” – respirando dopo “mette” – ha una seconda lettura identica al concetto di compromesso al ribasso).
        Vabbuo’, vado a farmi un caffè…

  9. Sarà che è primavera, sarà che parlare o, solo confrontarsi su determinati argomenti è sempre un piacevole conforto in queste lande (milano), ma è necessario essere positivi.
    La lotta per un domani migliore parte dalla condivisione e dalla consapevolezza di un essere insieme una cosa sola che è ben diverso da essere la stessa cosa. Difficile, quasi impossibile e, per questo meraviglioso….

  10. Salve a tutti,
    mi ritrovo pienamente nel racconto che Wu Ming 2 ha fatto di Macao e nei commenti che sono seguiti. Personalmente mi ritrovo, almeno per il momento, a propendere verso una lettura positiva di quanto accaduto finora a Macao (ho provato ad articolarla sotto forma di appunti pubblicati oggi per il blog “lavoro culturale”). Detto ciò, vorrei anche io provare a dare un contribuito alla discussione che avete sviluppato. Partirei dal fatto che Macao, al suo interno, abbia constatato, quasi programmaticamente, l’impossibilità di auto-definirsi in senso positivo. Nelle assemblee si cita Montale:

    Codesto solo oggi possiamo dirti,
    ciò che non siamo, ciò che non vogliamo.

    Credo che questo sia un punto importante, e che costituisca un atteggiamento produttivo nonché garante della fluidità e della permeabilità del movimento.
    Allo stesso tempo penso che se Macao è un progetto politico, ancor prima che etico ed estetico, allora è inevitabile che attiri a sé sferzate anti-politiche (oltre al paternalismo dell’Amministrazione Comunale, su cui però non mi soffermo). Ne costituisce esempio un articolo scritto per il Corriere da Silvia Davita, portavoce di GiovaniFrontiera, network dei giovani dei quartieri popolari di Milano. Mi permetto di proporvene uno stralcio:

    “Quelli di Macao non solo hanno occupato spazi di proprietà privata pur avendo gli appoggi “giusti” (come dimostra la visita degli assessori Boeri e Majorino alla torre occupata, e poi addirittura del sindaco in persona) e risorse economiche non irrilevanti vista la tecnologia di cui sono in possesso”.

    Con questo non voglio liquidare la questione bollandola come antipolitica. Il registro discorsivo, quello sì, è palesemente antipolitico, ma pone il tema della trasversalità e dell’apertura del movimento.

    In questo senso credo sia cruciale per Macao pensare “al di fuori di sé”. Oltre a curarsi di tenere libere e mobili le dinamiche interne che difficilmente possono minare l’unità “moltitudinaria” di Macao (per ora pressoché intatta, nonostante il rischio di frattura sulla questione Ansaldo emersa, e ricomposta, nell’assemblea) non si avvicina forse il momento in cui si deve evitare il rischio che il movimento venga diviso da pressioni esterne?

    A questo proposito Dario Fo ricordava di come loro, durante l’occupazione della Palazzina Liberty, fossero riusciti a portare avanti il progetto – materialmente, oltre che socialmente – grazie all’inclusione e alla presa in carico di esigenze e istanze esterne al “cognitariato” dell’epoca.

    La stessa questione si deve porre oggi per Macao?
    O i tempi sono cambiati e “ognuno” fa da sé?